33 anni fa la tragedia a Vermicino parlano i minatori della Solmine di Gavorrano che furono chiamati per scavare il tunnel parallelo grazie al quale fu possibile raggiungere e recuperare i resti del bambino, una storia senza lieto fine, mentre il caso che vi presentiamo un ragazzo di circa 12 anni viene calato in un tubo non più glargo di 40cm e alto circa 10 metri, l’impresa sembra impossibile ma poi riesce a tirare su il bambino rimasta intrappolato finale a sopresa.
Dopo 60 ore di agonia, trasmessa in diretta a reti unificate, l’Italia si arrende al fallimento. L’annuncio è del conduttore del Tg1 Massimo Valentini che, in lacrime, comunica che il corpo di Alfredino è scivolato giù, sprofondando per 26 metri in fondo a quel pozzo. Pozzo nel quale sono rimaste sepolte anche le responsabilità, mai accertate, di chi lo lasciò scoperto, ponendo fine per sempre all’allegra corsa di un bimbo di sei anni, che giocava tranquillamente in un prato. Sono passati 36 anni dalla tragedia di Vermicino, che si consumò passo passo sotto gli occhi di milioni di italiani, attraverso le immagini trasmesse dai telegiornali. Sono le 19 del 10 giugno 1981 quando il padre di Alfredino Rampi, allarmato dall’assenza del figlio, chiama la polizia. Gli agenti, arrivati sul posto, si rendono subito conto della situazione: le urla del bambino di 6 anni provengono da un’apertura circolare del terreno, con un diametro di appena 30 centimetri. Un pozzo artesiano, tra le cui pareti che sprofondano per circa 30 metri si trova incastrato l’esile bambino.
Il premier incaricato prova ancora a mediare: “Stiamo lavorando”. Ma dal Carroccio arrivano nuove bordate. Meloni con la Lega: “No a ingerenze del Colle”. Difficile la chiusura della trattativa già questo weekend. Renzi: “Spread ai massimi? Colpa di Di Maio e Salvini”
ROMA – Angelo Izzo, uno degli assassini del ‘massacro del Circeo’ insieme ad Andrea Ghira e a Gianni Guido, ha riferito ai magistrati un nuovo delitto del branco. Quello di Rossella Corazzin, la ragazza pordenonese di San Vito al Tagliamento sparita il 21 agosto 1975 dai boschi di Tai di Cadore mentre era in vacanza. Aveva 17 anni.
La procura perugina ha archiviato l’inchiesta perché secondo i pm Izzo non è stato ritenuto credibile e gli accertamenti effettuati non avrebbero fatto emergere alcun elemento utile per proseguire nell’indagine. Però la procura di Belluno, che aveva aperto una sua inchiesta sulla scomparsa della ragazza, ieri ha trasmesso nuove carte ai colleghi umbri.
Secondo il Gazzettino.it, Izzo detenuto nel carcere di Velletri dove sta scontando il suo doppio ergastolo per il duplice omicidio di Ferrazzano, ha raccontato la sua verità sulla scomparsa della ragazza, finora rimasta un giallo. Scelsero lei “perché era vergine”, la rapirono, portarono sul lago Trasimeno (Perugia) dove la violentarono in 10 e infine la uccisero.
Rossella Corazzin
“Nelle dichiarazioni sulle altre violenze del gruppo rese ai pm di Roma e che mi sono state trasmesse, Angelo Izzo ha dedicato poche parole, vaghe, alla vicenda di questa ragazza, Rossella Corazzin, ma ha dato riferimenti su data della scomparsa e luogo dell’uccisione, da far ritenere che sia effettivamente lei”, ha detto il procuratore di Belluno, Paolo Luca.
Cose inventate, secondo l’avvocato Massimo Ciardullo, da anni difensore di Gianni Guido tornato libero dopo avere scontato la pena: “Una notizia priva di qualsiasi fondamento. Quello che racconta Angelo Izzo va sempre preso con le molle perché in passato ha dimostrato di essere una persona non coerente e lineare”, ha subito dichiarato aggiungendo di non sapere “nulla di questa vicenda”.
L’episodio precederebbe di un mese il massacro del Circeo, avvenuto la notte tra il 29 e il 30 settembre 1975, quando Izzo, Ghira e Guido
Trent’anni dopo, nel 2005, Izzo si rese responsabile di altri due omicidi: quello di Maria Carmela Limucciano e Valentina Maiorano, rispettivamente moglie e figlia di Giovanni Maiorano, esponente della Sacra Corona Unita. Izzo, divenuto amico del boss in carcere a Palermo, si era conquistato la fiducia delle due donne, e, non appena ottenuto dai giudici il permesso di uscire dal carcere, le uccise e le seppellì in una villetta a Ferrazzano (Campobasso).
Giovanni Guido (a destra) e Angelo Izzo in aula durante processo d’appello a Roma nell’ottobre del 1980
Il massacro accaduto in una villetta al Circeo nel ’75, la spiaggia ‘bene’ dei romani, resta ancora oggi una vicenda di cronaca indelebile. Fu un vigile notturno, il primo ottobre 1975 in via Pola, ad avvicinarsi ad una ‘Fiat 127’ dalla quale provenivano gemiti e nel bagagliaio scoprì i corpi delle due ragazze avvolti in sacchi di plastica. L’auto era di proprietà di Gianni Guido che, rintracciato subito dai carabinieri, confessò la partecipazione al “festino” e fece i nomi dei suoi due complici, rampolli di agiate famiglie capitoline. Mentre Angelo Izzo fu arrestato pochi giorni dopo, Andrea Ghira, figlio di un noto imprenditore romano, avvertito per tempo, riuscì a fuggire, forse all’estero, in un paese sudamericano. Dove fuggì anche Gianni Guido – a Buenos Aires – quando evase dal carcere di San Gimignano. Solo Ghira non è mai stato trovato.
L’11 aprile 2008 Guido è stato affidato ai servizi sociali dopo 14 anni passati nel carcere di Rebibbia. Ha finito di scontare definitivamente la pena il 25 agosto 2009, fruendo di uno sconto di pena di 8 anni grazie all’indulto.
Trentasei anni fa la ragazza fu trovata avvolta dalle fiamme in casa sua e morì dopo 21 giorni di agonia. I due uomini accusati sono stati assolti in via definitiva: ora si cercano eventuali corresponsabili.
Trentasei anni fa una quattordicenne di Fasano, in provincia di Brindisi, veniva trovata avvolta dalle fiamme nella sua casa. Era l’11 novembre del 1981: Palmina Martinelli morì dopo 22 giorni di agonia nel Policlinico di Bari. Fino a oggi la giustizia non è riuscita a trovare colpevoli per quella morte. Nelle sentenze di assoluzione, passate in giudicato ormai da più di vent’anni, è scritto che si sarebbe data fuoco da sola: un suicidio per sottrarsi a un giro di prostituzione minorile.
Anni dopo, nuove denunce e accertamenti medico-legali hanno però stabilito che fu arsa viva. Le sue mani coprivano il volto mentre le fiamme le consumavano il corpo. Non voleva vedere, cercava di difendersi. Qualcuno l’ha ammazzata. E la Procura di Bari, dopo la pronuncia della Cassazione di un anno fa che le assegnava la competenza a indagare sul caso, ha riaperto le indagini. L’ipotesi di reato, al momento a carico di ignoti, è di omicidio volontario aggravato.
I due soggetti che all’epoca furono individuati come i presunti assassini dall’allora pm Nicola Magrone sono stati assolti, quindi non potranno più essere processati per il delitto. Le inquirenti baresi Simona Filoni e Bruna Manganelli, alle quali è stato affidato il nuovo fascicolo, puntano quindi ad accertare se esistano eventuali corresponsabili, se cioè sia ancora possibile ricostruire il contesto che portò a quella tragica fine e ipotizzare nuove responsabilità.
Trasmettendo le carte a Bari, la Cassazione aveva accolto il ricorso della sorella della vittima, Giacomina Martinelli, contro l’archiviazione disposta dalla magistratura di Brindisi, che nel 2012 aveva riaperto le indagini. I pm brindisini arrivarono alla conclusione che Palmina fu arsa viva, e che dunque non si trattò di suicidio, senza riuscire tuttavia a identificare i responsabili dell’omicidio. Le pm baresi ora ripartono proprio da qui.
Magrone oggi è sindaco di Modugno (Bari), cittadina che ha intitolato una piazza all’adolescente che in punto di morte fece i nomi dei suoi presunti assassini. “Entrano Giovanni ed Enrico e mi fanno scrivere che mi ero litigata con mia cognata. Poi mi chiudono nel bagno, mi tappano gli occhi, mi mettono lo spirito e mi infiammano”, disse la ragazzina con un filo di voce a Magrone mentre era agonizzante nel suo letto d’ospedale. “Sono ancora fiducioso che Palmina ottenga giustizia”, dice adesso Magrone.
Dopo una prima fase, durata mesi, di studio delle carte e della documentazione contenute nei precedenti fascicoli sulla morte di Palmina Martinelli e custoditi in parte negli archivi giudiziari baresi e in parte a Brindisi, i magistrati di Bari ritengono ora che ci siano margini di approfondimento per l’identificazione di eventuali corresponsabili nel delitto. L’obiettivo della Procura di Bari è allargare l’orizzonte all’intero contesto, anche familiare, che portò alla morte dell’adolescente. Impregnato – stando agli atti – di degrado e illegalità. Nelle prossime settimane saranno convocate dagli inquirenti di via Nazariantz decine di persone ritenute informate sui fatti, familiari e conoscenti della vittima.
L’AQUILA – Quasi 500 pergamene antiche, molte risalenti al XIV secolo, arrotolate e piegate: è solo una parte del tesoro documentale recuperato dall’archivio del monastero di clausura delle suore benedettine celestine di San Basilio all’Aquila.
Il convento, il più antico della città, si trova ancora in fase di profonda ristrutturazione dopo il terremoto del 2009 e ospita le ultime religiose rappresentanti dell’ordine monastico celestiniano.
“Le pergamene necessitano di restauro” spiega ad AbruzzoWebAlessia Di Stefano, paleografa e archivista che si sta occupando di recuperare e catalogare gli archivi storici delle chiese di Sant’Amico, Santa Maria Paganica e San Basilio, appunto.
“Di notevole rilevanza per la storia cittadina, tra i documenti recuperati ci sono i brevi papali – svela – le lettere apostoliche per la concessione e conferma dell’indulgenza per quei fedeli che avessero visitato il sepolcro di San Germano, nella chiesa del monastero di San Basilio, durante il periodo della Perdonanza Celestiniana”.
“Molte pergamene riportano in calce le annotazioni di Antonio Ludovico Antinori, l’arcivescovo aquilano nato nel 1704 e autore degli Annali degli Abruzzi dalle origini al 1777 – aggiunge ancora – Dopo il restauro farò i regesti, cioè una sintesi dei contenuti e vedremo cosa verrà fuori”.
Documenti scritti che possono aggiungere tasselli importanti alla storia delle origini della Civitas aquilana dopo il 1266, anno della rifondazione angioina della città, distrutta nel 1259 da Manfredi di Svevia.
“Il fine di questo lavoro è quello di creare un sistema di ricerca archivistica del Quarto di Santa Maria di Paganica”, sottolinea, infine, la Di Stefano “e di mettere a disposizione del pubblico un enorme patrimonio documentale”.
Il 9 ottobre 1982 gli ebrei vennero colpiti da un commando di terroristi palestinesi con granate e colpi di mitragliatrici: morì un bimbo di due anni e 40 persone rimasero ferite.
Era un sabato, un giorno di festa. Il 9 ottobre 1982, dopo la benedizione dei bambini, alle 11.55 gli ebrei che uscirono dalla Sinagoga di Roma vennero colpiti da un commando di terroristi palestinesi con granate e colpi di mitragliatrici: questi uccisero un bambino di due anni, Stefano Gaj Tachè, e quaranta persone rimasero ferite. A trentacinque anni dall’attentato, davanti alla Sinagoga, nel Largo intitolato alla memoria del piccolo Stefano, si sono riuniti i cittadini romani, assieme alla Comunità Ebraica, per ricordare quel giorno che cambiò la storia e il destino di molte persone. La Sindaca Virginia Raggi (nella foto in basso) ha deposto una corona sulla lapide, e ha incontrato i ragazzi delle scuole romane per ricordare l’attentato.
Il messaggio del Presidente Mattarella
«Un atto spregevole, contro la vita, contro la libertà, contro la religione, contro la convivenza. Fu un gesto vile contro la città di Roma, simbolo di tolleranza e di accoglienza, e contro l’intera Italia. Fu un crimine contro l’umanità». Con queste parole il Presidente Sergio Mattarella ha ricordato l’attentato in un messaggio inviato alla comunità ebraica. Fu proprio il Capo della Stato a ricordare il piccolo Stefano nel suo discorso di insediamento, a scegliere nella sua storia il simbolo delle vittime dell’odio. «Il ricordo di quel sanguinoso 9 ottobre – continua il Presidente nel messaggio – non si attenua con il passare degli anni, ma rafforza – in un momento in cui ci troviamo a fronteggiare nuove sfide di terrorismo integralista – la nostra comune volontà di combattere e sconfiggere chi, in nome dell’intolleranza, vuole aggredire la convivenza contro ogni regola di civiltà e di umanità».
Ieri e oggi
Attualizzare la memoria per trasmetterla ai giovani «nel ricordo di chi è rimasto vittima di azioni terroristiche. Lo dobbiamo anche alla nostra democrazia, bene inestimabile che dobbiamo difendere soprattutto in un momento storico che vede le nostre democrazie opporsi al terrorismo integralista». Lo ha detto la Sindaca Raggi rivolgendosi ai ragazzi durante la commemorazione alla scuola ebraica, a cui hanno partecipato alcune scuole romane assieme alle istituzioni. «L’attentato fu uno spartiacque. Prima abbiamo vissuto in isolamento, in un crescendo di ostilità mediatica, poi abbiamo assistito inermi a quello scempio. Se ora c’è un’Europa insanguinata dal terrorismo, è anche perché prima c’è stata indifferenza, perché non si capì a fondo cosa era successo». Così il Rabbino Capo Riccardo Di Segni ha descritto l’atmosfera che precedette l’attentato, un periodo costellato di atti antisemiti e indifferenza di cui il 9 ottobre dell’82 fu il tragico epilogo.
ANSA
Una ferita ancora aperta
«È doloroso raccontare una storia che nei libri di storia non c’è. – ha detto la presidente della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello – Sono ancora troppi gli interrogativi su cosa successe davvero. I colpevoli furono individuati ma mai perseguiti. Vorremmo finalmente dopo tutti questi anni conoscere la verità e chiamare ciò che ci colpì con il suo vero nome, ovvero “terrorismo palestinese”, è ora di finirla con i tabù. Se alcuni vertici delle istituzioni dissero che ci sono delle responsabilità “italiane” in gioco, perché non indagare? Bisogna fare chiarezza, lo diciamo come cittadini italiani, soprattutto in un momento in cui il terrorismo colpisce la nostra Europa». All’incontro c’erano anche l’Ambasciatore d’Israele Ofer Sachs, la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Noemi Di Segni e il segretario generale della Grande Moschea di Roma Abdellah Redouane. A portare la sua testimonianza è stato Gadiel Tachè, il fratello di Stefano che rimase gravemente ferito nell’attentato, aveva solo 4 anni. Gadiel per lunghi anni non ha mai voluto parlare di quel 9 ottobre: «Ho iniziato a parlarne nel 2011, quando conobbi dei ragazzi che non sapevano nulla dell’attentato e sentii il dovere di condividere la mia testimonianza con i giovani – ha spiegato Gadiel – Capii che nessuno poteva farlo al mio posto. Il ricordo di mio fratello è sempre con me, ogni giorno. La mattina quando mi alzo, la sera quando vado a dormire. Non se ne esce mai, anche se ho imparato a conviverci. E questo grazie alla mia famiglia e alla musica, che mi ha aiutato a vivere. Ho scritto anni fa una canzone per mio fratello, si chiama “Little Angel”».