Si occupa di economia sostenibile da quasi 30 anni e dal 2020 è il Presidente di Altromercato, Trevigiano, classe 1971, una laurea in Lettere Moderne, Alessandro Franceschini sta girando l’Italia per presentare un libro nato dalla volontà di raccontare l’esperienza ultratrentennale di Altromercato e la recente evoluzione della più importante organizzazione italiana di Commercio Equo e Solidale (87 Soci, 225 Botteghe e rapporti con 140 organizzazioni di produttori in oltre 40 Paesi, nel Sud e nel Nord del mondo). Il saggio – intitolato Consumi o scegli?, come la campagna ideata da Paolo Iabichino -, offre diversi spunti di riflessione sul vero valore delle “merci” e lancia un appello a trasformare i nostri acquisti quotidiani in scelte a favore di ambiente e persone. «Perché la transizione ecologica» osserva Franceschini, «avrà luogo solo se la sostenibilità sarà “praticata” e non solo raccontata». La sfida è evidentemente e soprattutto culturale: capire la differenza che c’è tra “consumare” e “scegliere”. Per Franceschini «Altromercato può veramente dare l’opportunità, tutti i giorni, di fare scelte concrete per creare un futuro più giusto, che porti benefici a tutti gli attori della filiera, dall’origine della produzione fino al momento in cui il consumatore sceglie cosa acquistare».
Confrontando passato e presente, il Presidente di Altromercato si dice convinto che è arrivato il momento di attivare nuove energie per cambiare il sistema: «A differenza di 30 anni fa, quando bisognava inventare delle alternative percorribili, oggi abbiamo già a nostra disposizione degli strumenti efficaci e di pronto utilizzo per agire sui guasti della macchina: sono le pratiche del consumo critico e dell’economia sostenibile e solidale. Dovremo essere sempre più capaci di trasformare la passività del consumo nell’attivismo delle scelte».
Una sostenibilità agìta e concreta, quindi, che ci invita a diventare dei “consumattivisti” e a impegnarci in prima persona. «Un modo» usando le parole di Paolo Iabichino, «di mettere nelle mani dei consumatori la patente civica e politica per cambiare le cose e spostare la C di CSR dalle Corporate ai Consumer».
Franceschini, chi è il consumatore critico?
«È una persona che vuole riappropriarsi del proprio ruolo di fronte agli acquisti ed esercitare la sua capacità di critica considerando non solo fattori di convenienza legati a prezzo e qualità del prodotto, ma anche gli aspetti sociali e ambientali che riguardano le filiere di produzione. È un consumatore versatile, capace di cambiare percorsi di riferimento e marche in base, appunto, ai suoi criteri. Deve essere informato e disponibile a informarsi, e attento, magari non in maniera ossessiva. Inoltre, deve avere una visione globale, quindi non considerare solo gli aspetti locali delle filiere ma, soprattutto per i prodotti che arrivano dall’altra parte del mondo, che sia tecnologia, abbigliamento o generi alimentari, considerare tutta la filiera e l’interdipendenza che c’è sul piano economico».
Con oltre 30 anni di attività sul campo, Altromercato rappresenta un osservatorio privilegiato di quello che è il consumo responsabile ed etico in Italia: com’è cambiato il consumo in relazione ai cambiamenti che hanno riguardato il contesto italiano?
«È molto cresciuta l’attenzione del consumatore per gli aspetti legati all’ambiente. Un fenomeno che si manifesta in primo luogo con una maggiore cura per la propria salute e una chiara tendenza, almeno per chi se lo può permettere, a scegliere filiere dal carattere più locale che garantiscono qualità del prodotto e che sono in antitesi col cibo di produzione industriale. In secondo luogo, il consumo responsabile tiene anche conto del rispetto dell’ambiente, orientando le scelte d’acquisto verso quei prodotti che si ritiene siano meno impattanti per l’ambiente. Noi, come Altromercato, cercheremo di portare avanti l’istanza più sociale perché è la meno ascoltata in questo momento e sulla quale non c’è ancora sufficiente sensibilità. Se fenomeni come quello italiano del caporalato incontrano l’attenzione e la sensibilità dei consumatori, non si può dire altrettanto per le filiere geograficamente più distanti. Penso al piccolo produttore di cacao o al raccoglitore del litio e delle terre rare necessarie a produrre i nostri cellulari. Creare empatia anche nei loro confronti deve essere una delle sfide future. Intanto, fra le note positive, va detto che sebbene il potere di acquisto degli italiani sia oggettivamente peggiorato negli ultimi anni, stiamo comunque dimostrando di voler orientare i nostri acquisti, o quantomeno una parte sostanziosa, su prodotti più durevoli, di migliore qualità, superando così l’idea del fast shopping. È una tendenza che si sta rilevando con sempre maggiore evidenza. Anche se, va detto, esiste una disparità molto forte fra chi si può permettere queste scelte e chi no. Le fasce più povere della popolazione fanno ancora molta fatica a ragionare in questi termini: nella loro condizione devono innanzitutto far fronte a bisogni primari. E questi non sono bisogni primari».
Parliamo della comunicazione e dell’inflazione di termini come sostenibile, solidale e green. Come Altromercato, che scelte state portando avanti per difendere la vostra voce dal rumore e dal “greenwashing” generali? Ma soprattutto come si fa a coniugare la comunicazione a sostegno della vendita dei prodotti con quella che deve raccontare al consumatore la storia e la filiera che ci sono dietro?
«Se passa l’idea che fare un’azione green vuol dire che il prodotto è sostenibile, allora c’è un incidente di senso. Perché se l’azienda produce esattamente come produceva 10 anni fa, con la stessa filiera, ignorando magari la provenienza dei suoi prodotti e non svolgendo alcun controllo sulla manodopera impiegata nelle prime fasi della lavorazione, anche se utilizza pannelli solari o pianta alberi in Amazzonia non può sostenere che il suo prodotto è “green”. E il consumatore deve essere tutelato rispetto a questo. Perché stiamo parlando di un’azienda che ha dei comportamenti green ma commercializza un prodotto che non è sostenibile. È come se vendessi il viaggio a bordo di un aereo che ha le ali malmesse e il pilota ubriaco, dicendo però che le poltrone sono comodissime: è un aspetto positivo che non deve però farmi scegliere l’intero prodotto. Cosa stiamo facendo noi di Altromercato? Stiamo cercando di puntare su prodotti che siano rappresentanti di una filiera. In pratica tutta la comunicazione – vedi il manifesto sul caffè – fa leva sulla sostenibilità dell’intera filiera che genera il prodotto, a tutela anche delle fasce più deboli implicate nel processo. Lo sforzo è quello di fare in modo che il brand diventi fortemente legato al prodotto e che a sua volta il prodotto sostenga il brand non in una chiave di racconto ma di sostanza. Ecco perché nel libro Consumi o scegli? abbiamo parlato di sostenibilità agita e non di sostenibilità raccontata».
Diletta Bellotti, una giovanissima attivista pugliese trapiantata a Roma che da qualche tempo si batte per combattere lo sfruttamento dei braccianti per la raccolta dei pomodori, sostiene che “i caporali non vanno criminalizzati perché sono parte di un processo di violenza strutturale; piuttosto vanno criminalizzati i capi d’azienda che assumono i caporali per sfruttare i braccianti”. C’è chi punta il dito contro la Grande Distribuzione Organizzata, responsabile di strozzare gli agricoltori mettendo ancor più in difficoltà i braccianti. Cosa si può fare e cosa fa Altromercato per difendere e sostenere l’affermazione di un modello di filiera etica nell’agricoltura italiana?
«Quello che facciamo e che è sintetizzato nel breve capitolo che il libro dedica alla filiera etica della cosiddetta “Tomato Revolution”, è contrapporre a quello tradizionale un sistema che coinvolge le piccole cooperative che hanno una forte garanzia sociale e che utilizzano la buona alleanza fra cooperazione sociale e difesa dell’ambiente. Sono d’accordo con Diletta Bellotti quando afferma che esiste un problema di sistema. Ma proprio per questo non ha senso parlare di un solo responsabile, è sbagliato. È vero che il caporale può essere considerato come un dipendente che attua un sistema che è decodificato, così come è vero che il proprietario agricolo sfrutta il caporalato e che la Grande Distribuzione si rivolge spesso a filiere che sono poco trasparenti. Ma chi può cambiare questo sistema? Credo che il legislatore possa fare poco. Ci ha provato, la legge sul caporalato c’è, però è evidente che sono troppo grandi gli interessi economici in ballo perché cambi davvero qualcosa. Ecco che, ancora una volta, il pieno potere è nelle mani dei consumatori. Se continuiamo a comprare i pomodori a 60 centesimi al chilo, possiamo esser certi che dietro c’è una condizione di sfruttamento dei lavoratori. È un tema, questo, che richiede molta educazione. Quando don Ciotti nell’introduzione del libro parla dell’importanza della leva culturale per un consumo differente, mi trova totalmente d’accordo. Girando l’Italia per presentare il mio libro, trovo sempre qualcuno che alza il dito e obietta che i prodotti del Commercio Equo e Solidale costano troppo. È vero che hanno un prezzo più alto rispetto a quelli del discount, ma finché non capiamo che prezzi troppo bassi al consumatore significa prezzi troppo bassi alla produzione, le cose non cambieranno mai. Perché alla fine, è triste dirlo, il mercato si organizza in modo lecito o illecito per soddisfare le esigenze dei consumatori».
Pandemia e crisi climatica: qual è l’impatto più evidente che stanno avendo sulle dinamiche del mercato equosolidale e sulle abitudini del consumatore?
«Per quanto riguarda il mercato, la cosa più evidente è che si sta osservando una grande sofferenza nei Paesi più poveri, dove le strutture sanitarie sono molto più deboli. C’è un aumento enorme – che anche i giornali italiani stanno sottovalutando ma che avrà un impatto devastante nei prossimi mesi – dei costi di trasporto delle materie prime che sta rendendo difficilissimi l’approvvigionamento e la vendita da parte dei produttori. Per molti produttori questo significa sostanzialmente non riuscire a vendere i prodotti che hanno in magazzino. Cosa sta succedendo, invece, sul fronte dei consumatori? Direi che si sta facendo largo una maggiore consapevolezza e una volontà più forte di riassociare l’idea del consumo alla relazione sociale. Assistiamo così alla riscoperta della bottega di prossimità e del volontariato. C’è un aspetto identitario nella voglia delle persone di ritrovarsi e riconoscersi, per ragionare e provare a uscire assieme dalla situazione in cui ci troviamo. Credo che ci sia un elemento che accomuna queste due crisi: la forte percezione di un’interdipendenza. Dopo anni in cui pensavamo di risolvere i problemi in un’ottica nazionalista e quasi autarchica di economia, adesso ci stiamo rendendo conto che, la pandemia da un lato e la crisi climatica dall’altro, ci interpellano a livello assolutamente globale. L’interdipendenza di cui parlo è – come continuo a sostenere fino alla nausea – sempre sociale e ambientale. Quello che è successo a Glasgow, quando l’India si è sfilata all’ultimo momento, è assolutamente emblematico. Un Paese con oltre un miliardo di abitanti che dice: “cari occidentali, dovremmo rinunciare alle centrali elettriche proprio ora che molti dei nostri cittadini possono finalmente disporre di energia 24 ore su 24 e permettersi un frigorifero, dopo che voi avete inquinato per 150 anni?”. Dal punto di vista ecologico è chiaramente un discorso insostenibile, ma se si osserva tutto il quadro e si considera l’economia come un’armonia fra aspetti sociali e ambientali il ragionamento è difficilmente contestabile. La morale, insomma, è che non si può affrontare solo un pezzo della questione».
Le grandi questioni globali con cui stiamo facendo i conti hanno con forza riabilitato e rimesso al centro la necessità di coltivare il multilateralismo e la cooperazione nelle sue forme più ampie, aperte e inclusive. Nel libro parli spesso di come il successo delle iniziative di economia sostenibile o delle operazioni innovative passi per le collaborazioni e le sinergie. Metti però in guardia dalla retorica del “fare sistema”, “fare rete” sempre e comunque, sottolineando che le collaborazioni davvero efficaci presuppongono che le due parti abbiano un interesse comune a mettere a disposizione le proprie risorse per un obiettivo condiviso.
«Sì, è così. Per anni abbiamo assistito a convegni popolati da un numero esagerato di relatori o alla presentazione di progetti che mettevano assieme i soggetti più diversi col solo scopo di poter citare tanti nomi a piè di lista. Tutto questo ha creato dei sistemi, dei distretti molto teorici. Alla resa dei conti, nella realtà poi, ognuno dei partecipanti, magari federati in associazioni, si presentava sul mercato per conto proprio e con la sua formula, convinto di possedere la chiave per aprirne le porte. Oggi, invece, in sistemi come quelli dell’economia sostenibile, ma anche più in generale in sistemi industriali più avanzati del nostro, è assolutamente necessario specializzarsi e mettere insieme le competenze per un obiettivo comune. Non più collaborazioni astratte ma partnership che si nutrono delle singole specializzazioni e che consentono alle aziende di affrontare più efficacemente il mercato: è questa la strada. Un errore che si commette spesso in settori specifici e ad alto contenuto valoriale come il commercio equo, la finanza etica e l’economia solidale è ritenere che i nostri partner siano dei concorrenti. Per anni, nell’equo e solidale, non si è lavorato con gli altri per il timore di perdere il proprio spazio sul mercato. E invece, oggi è più chiaro che mai, il mio concorrente non è l’altro soggetto del Commercio Equo e Solidale, ma sono Nespresso, Chiquita, Lindt, Perugina o Nestlè. Il progetto dell’Altromercato Hub è nato proprio nell’ottica di unire le forze: siamo piccoli e dobbiamo conquistarci una quota di mercato insieme».
Collaborazione e cooperazione sono i presupposti alla base del protocollo Made in Dignity. Ci racconti in poche parole come funziona, qual è il ruolo di Altromercato e cosa garantisce al consumatore finale?
«Made in Dignity è un protocollo innovativo nato dall’idea di abbinare la fornitura di materie prime provenienti dalle nostre filiere di Commercio Equo e Solidale a specifici progetti di sostenibilità sociale. Altromercato si fa garante di alcune filiere per conto di industrie e ristabilisce un collegamento fra industria e catena di produzione. In questo modo l’industria può assicurare che una parte della sua materia prima non è semplicemente acquistata da dei certificatori ma ne conosce la reale provenienza e può prendersi cura degli aspetti sociali ambientali delle organizzazioni di produzione. In sostanza il protocollo fa sì che Altromercato sia l’intermediario, nel senso positivo, il trait d’union, la cinghia di trasmissione tra le cooperative dei produttori e l’industria, in un progetto di cooperazione, finanziato dall’industria stessa, che prevede anche la vendita di prodotti. Questo aspetto è importante. Per essere più chiari, non faccio un progetto di cooperazione in cui produco il cacao esattamente come lo facevo prima e intanto finanzio un progetto per costruire un pozzo in Africa, ma agisco direttamente sulla cooperativa di produttori che fa il mio cacao. È qui l’innovazione: ci si affida a un partner del Commercio Equo e Solidale come Altromercato per instaurare una relazione diretta con i produttori».
Nel libro, parlando della necessità sempre più urgente di promuovere le cosiddette “filiere native sostenibili”, citi anche il “Capitalismo della sorveglianza”. Senza entrare troppo nel merito, quali sono secondo te nell’era degli algoritmi, dei dati sensibili relativi alle nostre scelte d’acquisito e non solo, i pericoli da cui dovremmo guardarci come consumatori costantemente connessi?
«Occorre tornare a quanto dicevo all’inizio, al tema del consumatore che deve riappropriarsi delle proprie facoltà. Alla presentazione del libro a Milano una giornalista ha osservato che il web avrebbe dovuto essere il luogo che garantiva la massima libertà. E invece, con l’avvento delle piattaforme e dei sistemi di profilazione degli utenti è diventato esattamente l’opposto, ovvero il luogo dove si esercita la massima forma di controllo. Da soggetto dotato di libero arbitrio che può fare delle scelte, il consumatore si è trasformato in un target: usufruisce di servizi che sono apparentemente gratuiti ma che paga col prezzo della sua profilazione. Alla fine, quindi, da cosa deve stare in guardia? Dal fatto che il suo interlocutore, che è colui che gli vende il prodotto, dispone dei suoi dati personali e conosce perfettamente le sue abitudini ed è pertanto in grado di fornirgli un prodotto che non è necessario ma che può suscitare la sua curiosità. Può farci piacere andare al bar sotto casa e vederci offrire il caffè che ci aspettiamo, “il solito in tazza grande”, ma quella è una cosa che rientra nelle nostre decisioni. Con le piattaforme non è così. Attraverso i nostri profili sociali e i dati delle nostre abitudini d’acquisto abbiamo dato loro un potere enorme con cui saranno sempre più in grado di anticipare le nostre esigenze. È una spirale da cui bisognerebbe sforzarci tutti di uscire perché è pericolosa e fa di noi soggetti passivi che consumano, invece che soggetti attivi che scelgono».
Altromercato ha chiuso l’anno fiscale con un fatturato di oltre 33 milioni di euro, +13% rispetto all’anno scorso. Come leggi questo dato nel contesto in cui ci ritroviamo e in prospettiva?
«Lo leggo come il frutto del nostro recente e più radicale ri-orientamento che all’inizio, lo confesso, temevamo non sarebbe stato accolto nel modo giusto. Credevamo che i consumatori più moderati si sarebbero spaventati, e invece no. Anzi ne abbiamo conquistati molti nuovi e abbiamo riavvicinato quelli che ci avevano accusati di essere diventati troppo “snob” negli ultimi anni. In generale abbiamo registrato una maggiore attenzione ai temi della sostenibilità che significa un riconoscimento degli oltre 30 anni di lavoro fatto da Altromercato. Il protocollo Made in Dignity di cui parlavo prima, le nuove collaborazioni e i progetti innovativi in genere hanno contribuito a questa crescita che continua anche in questo anno fiscale, nonostante tutte le incertezze del mercato».
L’articolo “Sono quel che compro”: il consumo critico secondo Alessandro Franceschini di Altromercato proviene da The Map Report.