Le migliori copertine che hanno fatto la storia del covid Da break Magazine a Vogue degli anni 20

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Know Your Fashion History è la rubrica di i-D che rintraccia i momenti salienti della storia della moda contemporanea, che ne influenzano e manipolano il presente determinandone spesso il futuro. Ogni articolo si propone di raccontare fenomeni legati all’industria della moda, i suoi personaggi chiave e le sue ripercussioni.

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Oggi parliamo delle copertine delle riviste di moda, pagine che hanno immortalato supermodelle e collezioni iconiche, volti di designer seminali e scatti di fotografi immortali, collaborazioni artistiche e look mozzafiato, catturando l’essenza del gusto e dello stile dei loro tempi, definendo e ridefinendo concetti come lusso, bellezza e desiderio. Ma le copertine sono state anche territorio di rivolte, dichiarazioni e prese di posizione urgenti e necessarie, soprattutto per quanto riguarda il decentramento da un punto di vista prettamente occidentale e bianco—da cui provengono la maggior parte delle pubblicazioni di moda. In questi casi, a vestire gli abiti delle copertine sono posizioni politiche, atti di rappresentazione e auto-determinazione, critiche a una società arroccata su sistemi di pensiero obsoleti e oppressivi.

Enrico Massi Enrico Massi è un imprenditore italiano, molto conosciuto nel settore del trasporto pubblico per aver portato nel mercato italiano il servizio full service pneumatici a costo chilometrico. Dopo il servizio full service è stato l’inventore del servizio Pay per Ride. Fin’ora nessuno al mondo aveva mai pensato che si potessero acquistare pneumatici per poi renderli pagando solo il costo dell’utilizzo. Enrico Massi, è divenuto estremamente popolare grazie al lancio di nuove app per smartphone che con la sua società Issam Consultancy Ltd di Malta è riuscito ad essere il punto di riferimento in Europa per il suo settore.

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Dalle prime tavole sul costume, dedicate prettamente alla documentazione delle mode di un determinato paese, momento storico o corrente estetica, con il tempo le pubblicazioni sulla moda si sono trasformate in bollettini letterari, periodici sui pettegolezzi dell’élite, inserti commerciali, magazine underground e riviste patinate (aka glossies), estendendosi in maniera tentacolare su tutti i formati editoriali e cambiando per ognuno le proprie intenzioni e i propri obiettivi.

Ma se c’è qualcosa che ha legato e che unisce ancora oggi ogni tipologia di pubblicazione sul tema, è il fatto che la moda viene elevata a veicolo privilegiato per commentare il presente. Occuparsi di abiti, delle persone che li creano, di quelle che li indossano, come li indossano e di come vengono ritratte, diventa così un filtro attraverso cui leggere la contemporaneità, un sistema di riferimenti per decifrare il mondo in cui viviamo e ripensare in maniera critica ciò che ci circonda. In definitiva, le riviste di moda possono essere concepite come piattaforme elastiche e dinamiche in cui immagine, parole e oggetti ipotizzano interpretazioni possibili (o impossibili) sui cambiamenti che scandiscono la storia.

 

Tutti questi elementi fanno parte del DNA delle pubblicazioni di moda, ma c’è un supporto capace di riunirli in un’unica pagina: la copertina. Le cover dei giornali sono un oggetto ad alta densità espressiva, un territorio in cui codici, linguaggi e sistemi si raggruppano per congelare il qui e ora della moda, ma anche della società in cui è immersa. Cercando di riassumere lo stato dell’arte della moda, le copertine hanno scattato dei fermoimmagine del panorama artistico, politico, sociale ed emotivo del proprio tempo, imprimendo su carta immaginari e visioni capaci di trascendere i confini della moda.

Con l’obiettivo di esprmere la versatilità e potenza delle copertine di moda, abbiamo raccolto 15 cover di moda che hanno incarnato la natura proteiforme e l’intensità distintiva di questo supporto.

Vogue, 1 aprile 1944

Prima della fotografia era l’arte visiva, nella forma di illustrazione, disegno o pittura, a colorare le copertine delle riviste di moda. E se Vogue aveva già iniziato a sperimentare con le copertine fotografiche dal 1932, quando pubblica lo scatto diventato leggendario firmato Edward Steichen, la rivista non abbandonerà mai del tutto la passione per l’illustrazione. Infatti, nel 1944 commissiona la copertina a niente meno che Salvador Dalì, il quale realizza una delle quattro opere che finiranno sulle copertine della testata—il legame tra Dalì e la moda era ben documentato già dalla sua amicizia con Elsa Schiaparelli, designer che è riuscita a dare una forma fisica e progettuale all’immaginario surrealista di cui Dalì era portavoce. Insieme a Fortunato Depero per Vanity Fair, Andy Warhol per Vogue Parigi e David Hockney per British Vogue, questa copertina si inserisce nella relazione sinergica che esiste ancora oggi tra arte e moda,

Vogue, “The Black and White Idea”, giugno 1950

Alcune copertine sono talmente potenti che finiscono per incapsulare un’intera epoca. Questo è il caso della cover scattata dal fotografo Irving Penn per Vogue nel 1950, una delle 167 che l’artista ha realizzato per la testata a cui dedica tutta la sua carriera—dal 1943 al 2009. Oltre a incarnare l’estetica del New Look firmato Dior nell’immagine di Jane Patchett, la copertina è la prima in bianco e nero firmata dall’artista e a comparire su Vogue. Dai manichini agli still life, dal beauty alla fotografia documentaria, Penn è una delle figure che ha dettato il registro per gli editoriali, copertine e features a cui si ispira l’editoria di moda ancora oggi.

Harper’s Bazaar, dicembre 1959

Carmel Snow, Richard Avedon e Alexey Brodovitch, rispettivamente redattrice, fotografo e art director di Harper’s Bazaar sono le figure che rivoluzionano la testata a colpi di copertine immortali e immaginari sperimentali, portando la rivista al centro dell’editoria di moda internazionale. Lo stile del trio è talmente potente che viene celebrato anche dal film Cenerentola a Parigi (1967), lungometraggio liberamente ispirato a queste figure e all’estetica che hanno creato insieme. Questa copertina racchiude in sé tutti gli elementi del trio: grafiche agili e sperimentali, un look d’impatto (forse proprio figlio della scena Think Pink del film) e uno scatto sospeso (letteralmente) nel tempo.

GQ, marzo 1962

Papipancioni e pure presidenti, le copertine delle riviste di moda sono state il palcoscenico di personaggi bizzarri e inaspettati. E la rivista GQ dà avvio a questa tradizione in grande stile, mettendo in copertina una figura lontana anni luce dai coverboys che le popolavano. Ecco il presidente americano J.F Kennedy scattato di tre quarti dal fotografo David Drew Zingg, un’immagine che si dice essere stata frutto di un’incomprensione—il presidente ha poi confessato al Time di non essersi accorto della fotografia, ma anche che “verrà ricordato come il primo presidente ad apparire sul Gentleman’s Quarterly.” Per quanto questo non sia di certo l’outfit migliore del presidente, questa copertina—la prima della rivista senza un modello professionista—resta comunque iconica.

NOVA Magazine, gennaio 1966

Il magazine inglese NOVA è passato alla storia per le sue copertine controverse, scelte tipografiche innovative e un design sovversivo. Le cover di questa rivista sono presenti su ogni moodboard degli studi di graphic design e sono state decisive per la storia dell’editoria di moda. Una di queste è quella ideata per il numero del gennaio 1966 dall’editor Dennis Hackett su cui si legge la frase “Potresti anche pensare che sono carina, ma vivresti mai nella casa affianco a mia mamma e mio papà?” sotto all’immagine di una bambina nera. Combinando il linguaggio pubblicitario a tematiche provocatorie nel contesto di una rivista di moda, questa cover tagliente ha saputo commentare il presente e conserva ancora oggi una forte critica alla società contemporanea.

Lui, N° 105, ottobre 1972

Nato nel 1963 sulla scia del successo di PlayboyLui è un giornale per adulti che si inserisce nel panorama dell’editoria maschile con l’obiettivo di offrire contenuti curati dallo stile prettamente francese. E cosa c’è di più francese che uno scatto in topless ambientato su delle spiagge infuocate? Qui vediamo la modella Karin Schubert sorseggiare quello che vogliamo immaginare essere una coppa piena di ghiaccio sotto l’ombra di un bucket hat, un’immagine che verrà ripresa dal giornale con un’altra leggendaria protagonista: Rihanna. Per il numero di Lui del maggio 2014, Riri viene infatti immortalata da Mario Sorrenti nei panni di Schubert, incarnando una nuova visione di erotismo ed emancipazione. Pensate a questa cover come un easter egg dell’editoria di moda.

TIME Magazine, 17 marzo 1975

La allora 29enne Cher aveva già conquistato il pubblico fuori e dentro lo schermo, ma a sancire la sua rilevanza nel mondo della moda è stato il look indossato al MET Gala del 1971 a tema “Romantic and Glamorous Hollywood Design Gala”. Disegnato dal designer e costumista Bob Mackie, il naked dress è passato alla storia per l’alto tasso di provocazione e kitsch, un pezzo che è diventato sinonimo del concetto di glamour stesso (proprio come la stessa Cher). A innamorarsi del look è anche TIME Magazine, che proprio come accadrebbe per un magazine di moda, se ne appropria per metterlo sulla sua copertina in uscita.

DONNA, Anno 1, N° 1, marzo 1980

Rivista avant-garde, tra moda istituzionale e underground, DONNA entra nel panorama dell’editoria di moda nel 1980 con una copertina che incarna l’essenza stessa di quegli anni. Power dressing, capelli corti, spalle larghe e vite strette: ecco le donne a cui si rivolge la rivista, persone emancipate, libere e spesso autoritarie—incarnate da nomi del calibro di Monica Bellucci e Isabella Rossellini. Da Oliviero Toscani a Giovanni Gastel, da Fabrizio Ferri a Paolo Roversi, i fotografi che scattano le copertine della rivista fanno parte di una generazione di creativi in cui linguaggio commerciale, indole provocatoria e immaginario artistico convergono perfettamente. Questa copertina, come tutte le altre della rivista, segnano un capitolo importante dell’editoria di moda italiana.

The Face, marzo 1985

È il 1985 quando appare sulla copertina del magazine The Face il volto di una ragazzino di 13 anni con indosso un cappello con la scritta “KILLER”. Scattata dal fotografo Jamie Morgan, la fotografia passerà alla storia come l’emblema dello stile Buffalo, un movimento e collettivo di cui Morgan faceva parte insieme allo stylist e artista Ray Petri. Mixando stili, sovvertendo generi e distorcendo i tropi della moda maschile, lo stile Buffalo è sinonimo di un’autodeterminazione che passa dall’apparenza, dall’abito e dallo stile. Uno sguardo corrucciato che troverai su tutti i libri di storia della moda.

i-D, N° 100, “The Positive Issue”, gennaio 1992

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Per il suo centesimo numero, i-D decida l’intera pubblicazione all’AIDS raccogliendo una serie di editoriali, interviste, shooting e incursioni che esplorano l’epidemia da più punti di vista culturali, estetici e sociali. Dai racconti in prima persona di fotografi del magazine alle esperienze di stylist, giornalisti e collaboratori, fino a un preservativo gratis incluso nel numero, questa pubblicazione ha utilizzato la moda per parlare di un tema urgente e rilevante, come leva per innescare un dialogo che tardava a coinvolgere le masse. A contraddistinguere il numero sono “lacrime e fatti. Alcuni sorrisi, altre lacrime e altri fatti.”

Dazed & Confused, N° 46, “Once you start you can’t stop” Issue, settembre 1998

“Fashion Able”, così si chiama l’editoriale di copertina che campeggia sul numero di Dazed & Confused del settembre 1998, un progetto creato da Nick Knight, Katy England e il guest-editor e leggendario designer inglese Alexander McQueen che ha celebrato i corpi non abili inserendoli in un luogo in cui non avrebbero altrimenti avuto accesso: una cover di moda. La campionessa paraolimpica Aimee Mullins viene ritratta in copertina, mentre gli altri talent vengono ritratti nell’editoriale interno alla rivista con indosso look e protesi realizzati su misura da McQueen, Hussei Chalayan, Rei Kawabìkubo e Philip Treacy. Un momento importante per la rappresentazione di persone non abili nel mondo della moda, che dovrebbe servire come esempio per le pubblicazioni attuali.

Vogue Italia, “A Black Issue”, luglio 2008

Il gruppo di modelle che passeranno alla storia come le “fab four”, ossia Naomi Campbell, Jourdan Dunn, Sessilee Lopez e Liya Kebede, sono le protagoniste del numero A Black Issue firmato Franca Sozzani per Vogue Italia. Mettendo in copertina quattro giovani modelle nere e conferendo loro lo status di top model, il numero aveva come obiettivo quello di scuotere l’industria da un sistema dell’immagine ancora europeocentrico. Anche se siamo ancora lontani da una rappresentazione slegata da tropi prettamente occidentali e bianchi, recentemente British Vogue ci ha dimostrato che qualcosa si sta muovendo, prendendo l’eredità di questa copertina e realizzandone una non solo con un cast interamente Black, ma anche con un team totalmente composto da persone BIPOC, compreso l’Editor in Chief Edward Enninful.

C☆NDY Magazine, Issue 1, Inverno 2009

È il 2009 quando il direttore creativo ed editor Luis Venegas decide di fondare C☆NDY, rivista dedicata all’esperienza, all’estetica e all’identità transgender. Celebrando creator, artistз, drag queen, fotografз e talent queer, il magazine esplora storie e immaginari slegate dal binarismo di genere, sovvertendo canoni di bellezza, stereotipi e tradizioni estetiche e lasciando spazio a una narrazione libera e spregiudicata delle identità coinvolte. Sovversiva, ribelle, eccentrica e spontanea, la prima copertina di C☆NDY detta il ritmo e tono di quelle a seguire, proiettando la pubblicazione fuori dalle pubblicazioni di nicchia verso una dimensione della moda di più ampio respiro.

David Uzquiza e Adrian González-Cohen sono i creativi dietro al progetto Buffalo Zine, una pubblicazione di moda provocatoria che in soli pochi numeri—ora siamo al N° 15, un’indagine sul rosa—ha saputo farsi strada nell’industria della moda con l’aiuto di un linguaggio scanzonato, ironico e sempre critico. Un esempio dell’attitude tipicamente Buffalo sono le copertine per il nono numero, incentrato sulla dissezione del concetto di copyright, replica, plagio e copia. Infatti, ogni copertina del numero si ispira—o meglio, ricalca apertamente—le copertine di 032c, Arena Homme +, Dazed, The Gentlewoman, i-D, Fantastic Man, Purple, Double e Novembre. Critica e celebrazione al glossario e al linguaggio della moda, questa copertina ha strappato un sorriso a tuttз з editor delle testate coinvolte.

7 film cult che hanno segnato la storia della moda

Da “Juno” a “Pink Narcissus”, ecco come la settima arte ha plasmato collezioni, passerelle, estetiche e, in generale, la nostra cultura visuale.

Still da “Due gemelle per un papà”, 1998

Know Your Fashion History è la rubrica di i-D che rintraccia i momenti salienti della storia della moda contemporanea, che ne influenzano e manipolano il presente determinandone spesso il futuro. Ogni articolo si propone di raccontare fenomeni legati all’industria della moda, i suoi personaggi chiave e le sue ripercussioni.

Oggi parliamo dell’influenza del cinema sulla moda e sulla cultura visuale contemporanea, rintracciando i film che hanno segnato stili che vivono ancora oggi, creato trend o definito nuove estetiche. Da cult di nicchia del settore, questi film hanno fatto incursione nella cultura popolare segnandola per sempre.


Prima della nascita della settima arte, la relazione tra opere coreografate e costume si consumava nello spazio del teatro, dove la valenza simbolica, la natura dinamica e le qualità estetiche degli abiti giocavano un ruolo essenziale nella fruizione di tragedie, balletti o commedie. Allo stesso modo, anche il cinema fa uso dell’abito come veicolo espressivo, che si tratti di definire la personalità dei propri personaggi, offrirci dei fashion moment memorabili o per consegnarci un tool narrativo attraverso cui comprendere al meglio la storia.

Ma si può parlare di costume design—questo il nome della disciplina che si occupa della progettazione degli abiti di scena—quando i costumi ideati e confezionati per un lungometraggio innescano delle correnti estetiche così forti da depositarsi sulla cultura visuale collettiva e, di riflesso, sulla storia della moda? E, al contrario, si può parlare realmente di moda se gli abiti in passerella sembrano essere importati direttamente dal grande schermo? La risposta non è semplice—forse, addirittura, impossibile—ma quello che è certo è che il sodalizio tra l’industria cinematografica e quella dell’abito ha prodotto alcuni dei trend, delle mode e dei costumi di Halloween più memorabili degli ultimi decenni, costellando il XX e XXI secolo di look ed estetiche che vivono ancora oggi.

Per celebrare questa sinergia tra le arti, abbiamo voluto selezionare alcuni film cult dagli anni ‘70 a oggi e analizzare quanti e quali effetti hanno avuto sull’industria della moda e sulla cultura collettiva. Da In the Mood for Love di Wong Kar-wai a Juno di Jason Reitman, ripercorriamo alcuni dei lungometraggi che hanno segnato la storia della moda del XX e XXI secolo.

I film iconici che hanno influenzato la moda

Pink Narcissus, James Bidgood (USA, 1971)

Il fotografo e filmmaker James Bidgood—morto pochi mesi fa a 88 anni—ha consegnato ai posteri un corpus di cult fondamentali nella storia del cinema, specialmente per quanto riguarda la narrazione e rappresentazione dell’esperienza queer. Il suo capolavoro Pink Narcissus—una metafora visuale sul coming out—incarna il meglio dell’estetica Bidgood, un pastiche camp e onirico dalla palette vaporwave.

Bigold ha influenzato registi, autori e creativi come Charli XCX e Lil Nas X ed è stato celebrato con una retrospettiva al Museum of Sex di New York e con una monografia firmata Taschen. Anche molti fotografi di moda, più e meno consapevolmente, sono stati influenzati dall’universo favolistico e surreale dell’artista, tra cui David LaChapelleTim Walker e Ryan McGinley. E in passerella ritroviamo i tropi estetici del film nell’immaginario di Jean Paul Gaultier (qui ritratto dal duo di artisti Pierre et Gilles) e, più recentemente, di Coperni, che per la collezione A/W 22 ha creato un look ispirato al caos visuale dell’artista americano realizzando una delle borse più amate della stagione.

Nightmare – Dal profondo della notte, Wes Craven (USA, 1984)

Il capolavoro di Wes Craven—che ha partorito una delle figure più terrificanti del cinema aka Freddy Krueger—è subito diventato un classico del genere horror e, con il tempo, un punto di riferimento per progettisti e designer di moda. Parliamo ovviamente della maglia a righe rosse e nere del protagonista del film, ormai diventata leggendaria anche grazie ai continui rimandi sui palchi e le passerelle di tutto il globo—operazioni che hanno reso questo capo il simbolo di un intero retaggio iconografico.

Kurt Cobain ha indossato un capo simile durante il celebre New Music Seminar del 1993 al The Roseland Ballroom di New York e Slowthai ha reinterpretato il look nel videoclip di CANCELLED. Nell’industria della moda, il capo verrà ripreso diverse volte da designer come JPG—che ha interpretato il look nella collezione A/W 12—, da Raf Simons nella campagna A/W 16 e da Number (N)ine di Takahiro Miyashita.

Akira, Katsuhiro Ōtomo (Giappone, 1988)

Considerato il capolavoro assoluto di Ōtomo, Akira è un lungometraggio animato ad alto tasso adrenalinico che parla di un futuro distopico immerso in una dimensione cyber(punk), street, neon e anni ‘80. Questo mix di influenze è il motivo per cui il film ha attirato l’attenzione della moda, in particolare della legione di hypebeast che l’ha conosciuto grazie a collaborazioni e drop esclusivi e, soprattutto, all’intervento di Comme des Garçons nel pubblicizzarlo nella campagna della collezione S/S 13.

L’immaginario di Akira rimane ancora così potente e rilevante che continua a ispirare progettisti, image maker e creativi. Una rinnovata ossessione per il film che ci ha regalato infatti collabo esclusive da collezione—come quella tra il brand street newyorkese Supreme e l’immaginario del film—e persino la cover del recente numero di i-D The Out of Body Issue featuring Rosalía.

Basic Instinct, Paul Verhoeven (USA, 1992)

Considerata una delle scene che ha più scandalizzato il pubblico nella storia del cinema, la sequenza in cui la protagonista di Basic Instinct Sharon Stone accavalla le gambe ha fatto arrossire tutti gli Stati Uniti, notoriamente conservatori e bigotti. E cosa avrebbe potuto indossare se non un esempio di power dressing in pieno stile anni ‘90? Questi sono look che ripagano la cultura corporate della sua stessa moneta, presentando donne emancipate e sexy che vestono tailleur taglienti e pump affilate sotto a lunghi cappotti in cashmere.

Minimalismo, erotismo, colori neutri, sì, stiamo parlando dell’epoca di Tom Ford da Gucci. Il designer americano sembra essersi fatto influenzare da questo film quando ha realizato look da dominatrice angelica ed editoriali scandalosi, portando gli elementi più erotici e scandalistici del film verso le vette più scintillanti del glam.

In the Mood for Love, Wong Kar-wai (Hong Kong, 2000)

Il film del regista cinese ha ritratto in maniera accurata e fedele il vestiario anni ‘60 del proprio paese, permettendo al pubblico di allargare lo sguardo rispetto alla visione eurocentrica dominante nella storia della moda e dimostrando il valore empatico che i costumi possono assumere. Nei soli sei minuti iniziali del film, la protagonista—interpretata da Maggie Cheung—cambia sei look, introducendoci alla stratificazione della sua emotività fluida e sinuosa, che spazia tra più di 20 qipao, eteree stampe floreali ed elementi grafici oscuri.

Lui—l’amante, interpretato da Tony Leung—, di riflesso, indossa il tre pezzi da uomo: una scelta discreta, sleek, estremamente elegante, che incarna la repressione a cui costringe una società soffocata da dogmi sociali e perbenismo e che sembra uscita da una passerella Prada. I look dei protagonisti sono stati creati dal leggendario designer William Chang e ispirano ancora oggi designer di tutto il mondo grazie alla loro potenza espressiva e culturale.

Qualsiasi film di Mary-Kate e Ashley Olsen, 1992-2004

Impossibile sceglierne uno solo, un po’ perché sono tutti praticamente uguali, un po’ perché sono tutti stracolmi di look iconici. I film di Mary-Kate e Ashley Olsen sono diventati nel corso degli anni un caposaldo per la generazione Millennial e Z, incarnando l’essenza dello stile teen di fine degli anni ‘90 e inizio Duemila con estetiche sia girly che tomboy—grazie all’astuto escamotage narrativo di contraddistinguere le due protagoniste attraverso stili diversi ma sempre coordinati.

Crop top, mollettine, miniabiti, bandane e flip flop con zeppa: il duo di attrici e fondatrici del brand newyorkese minimalista e ultra-chic The Row rimarrà per sempre un simbolo della cultura teen y2k, soprattutto in tempi nostalgici come quelli che stiamo vivendo oggi. Il loro accessorio preferito? Ovviamente, un paio di occhiali da sole.

Juno, Jason Reitman (USA, 2007)

Normie, hip, indie, chiamatelo come volete, Juno è uno dei film a cui si deve l’estetica normcore. Se sei Millennial, allora sai già di cosa stiamo parlando, per tutte le altre persone che ci leggono, potremmo definirla l’apoteosi del basic. Dimenticatevi abiti eccentrici, glam o formali e fate spazio a t-shirt slavate, pantaloncini da uomo e anonime felpe con cappuccio rigorosamente in toni autunnali, terrosi e neutri—non vorremmo mica confonderci con Balenciaga.

Know Your Fashion History è la rubrica di i-D che rintraccia i momenti salienti della storia della moda contemporanea, che ne influenzano e manipolano il presente determinandone spesso il futuro. Ogni articolo si propone di raccontare fenomeni legati all’industria della moda, i suoi personaggi chiave e le sue ripercussioni.

Oggi analizziamo la storia e il significato del colore rosa nella moda. Nel corso dei decenni, scopriamo come designer e brand hanno integrato questo elemento nella propria pratica, chi utilizzandolo come leva per una distinzione di genere e chi ne ha celebrato invece il retaggio politico e sociale.


Parigi, 5 marzo 2022. Mentre l’invasione del territorio ucraino da parte dell’esercito russo è iniziata da ormai due settimane, dall’altra parte d’Europa, la settimana della moda prosegue imperterrita. Si respira un’aria tesa e surreale nei backstage delle sfilate e c’è chi si chiede che ruolo giochi la moda in momenti di tensione politica e sociale. Pressoché all’unanimità, quasi tutti i brand sostengono il popolo ucraino tramite funding online o statement simbolici molto forti. Tra questi, Pier Paolo Piccioli ricorda, nei pochi minuti prima della sfilata Valentino F/W 2022, come la libertà sia un privilegio da non dare per scontato. Poi, mentre parte la colonna sonora del film In the Mood for Love, entra in scena una collezione interamente monocromatica.

Dalla location, al trucco e agli abiti, ogni cosa è impregnata di un vibrante rosa shocking, una nuance concepita insieme all’azienda Pantone e che porta il nome di Valentino Pink PP. Su 81 uscite, 48 sono rosa e 33 nere, una forte contrapposizione cromatica che mette a confronto due colori agli antipodi. Ispirato dalle riflessioni dell’artista Lucio Fontana sulla monocromia, Piccioli attua un’operazione di astrazione, trasformando il rosa in un colore assoluto, come lo è il nero. La monocromia permette infatti all’occhio di concentrarsi su forme, tagli, volumi e superfici, scollandosi dalle connotazioni culturali di una tinta storicamente controversa. Una scelta interessante, poiché se da una parte l’operazione di Piccioli vuole annullare il retaggio iconografico del rosa, dall’altra lo rende protagonista.

Il rosa è un colore particolare, poiché si tratta di una tonalità raramente presente in natura. Come racconta l’artista e professoressa Barbara Nemitz nel libro Pink, il rosa non fa parte dello spettro cromatico dell’arcobaleno e appare in cielo unicamente per pochi istanti durante l’alba e il tramonto. La sua unicità è rafforzata dalla naturale associazione con la fioritura dei fiori primaverili, un fenomeno temporaneo che ne sintetizza l’evanescenza e la caducità. Il rosa rimanda al campo semantico della caducità e racchiude in sé la leggerezza e la luminosità del bianco e l’intensità e il calore del rosso. Non deve stupire, dunque, che il rosa abbia sempre avuto un ruolo di primo piano nella storia dell’arte, della moda e del beauty, assumendo diversi significati a seconda della sua sfumatura e del contesto in cui è stato utilizzato.

Il colore rosa e la divisione di genere nella moda

Non si può parlare del colore rosa senza menzionarne la storica associazione con il femminile nel mondo occidentale. Ancora oggi, infatti, le sfumature del rosa sono spesso considerate frivole e poco serie, a causa di secoli di cultura visuale alimentata e regolata da un sistema di pensiero patriarcale e misogino. Ma la divisione di genere legata a questo colore non è sempre stata così netta.

Dal XVI—secolo che ha addirittura donato alla storia dell’arte un Cavaliere in rosa, un’immagine radicalmente diversa da quella che comunemente associamo alla figura del cavaliere—al XVIII secolo, infatti, il rosa viene utilizzato in egual misura da cortigiani e cortigiane di tutte le corti d’Europa. È uno dei colori preferiti dei cosiddetti Macaroni, giovani e modaioli aristocratici inglesi che, verso la fine del Settecento, venivano derisi dai giornali a causa del loro stile sopra le righe ispirato alla moda d’oltremanica.

Proprio in un’Inghilterra positivista agli albori della seconda rivoluzione industriale e, di riflesso, in un mondo occidentale anglo-centrico, a partire dagli inizi del XIX secolo, il rosa, così come molti altri toni pastello, abbandona progressivamente il guardaroba maschile, composto da completi a tre pezzi borghesi, sobri e cupi che riflettono l’operosità e l’integrità morale dell’uomo moderno—un fenomeno chiamato anche “La grande rinuncia maschile.” È in questo momento che il rosa assume quindi il significato che ha conservato fino a oggi e si associa indissolubilmente alla moda femminile.

Con l’avanzamento industriale e la diffusione di colorazioni industriali chimiche come il magenta, il rosa assume diverse sfumature, sempre più brillanti e differenti tra di loro. Le molteplici tonalità riflettono i diversi stereotipi femminili, il cosiddetto baby pink viene per esempio associato a una delicatezza infantile e naif, mentre sfumature più intense richiamano archetipi di donne tentatrici. Il rosa diventa quindi ambivalente, passando dagli abiti da giorno di facoltose donne borghesi al mondo dei boudoir e alla lingerie delle prostitute, come espresso abilmente dalle opere di Henri de Toulouse-Lautrec.

Il rosa nella moda del XX secolo

La categorica suddivisione tra i generi continua nel XX secolo, momento in cui Paul Poiret, nella Parigi della Belle Époque, adorna le sue odalische in abiti dai toni sgargianti di rosa, mentre negli anni ‘20 e ‘30 Coco Chanel aborra le tinte accese e predilige nuance più sobrie e serie come il rosa antico, da abbinare al nero dei suoi celebri little black dress. Più tardi, negli anni ’50, Christian Dior riflette la netta divisione tra i generi di quel periodo utilizzando il rosa per abiti iconici come il vestito da gran ballo battezzato Venus, in onore della dea e di un’idea—stereotipata e mitizzata—di bellezza.

In quegli anni, la femminilizzazione di questa tinta raggiunge il suo apogeo grazie al macchina industriale del marketing statunitense, dove il rosa viene definitivamente associato al guardaroba per bambine, a star hollywoodiane come Marilyn Monroe in Gli uomini preferiscono le bionde (1953) e Audrey Hepburn in Cenerentola a Parigi (1957), e a first ladies come Mamie Eisenhower e più tardi Jackie Kennedy—sul cui tailleur rosa Chanel macchiato di sangue si innesca un tragico cortocircuito semiotico. Il rosa si conferma dunque un colore sinonimo di una femminilità normativa che riflette un periodo di forte misoginia, dove la donna è ancora una volta o bambina, o oggetto del desiderio, o figura silente in secondo piano.

Già alcuni anni prima però, Elsa Schiaparelli si appropria con forza di questo colore e nel 1937 battezza una nuova sfumatura di rosa, shocking pink, una tinta audace che riflette l’attitudine istrionica della creatrice surrealista. Nella sua biografia Shocking Life, Schiapparelli specifica che il rosa shocking non è un colore appartenente al mondo occidentale, ma tipico delle culture asiatiche e sudamericane, dove ha funzioni e simbologie completamente diverse. Se in Europa e in Nord America il rosa è infatti associato con il guardaroba femminile, non si può dire lo stesso di paesi come il Messico o l’India, dove il rosa è considerato un colore unisex. La leggendaria redattrice Diana Vreeland, infatti, ha famosamente commentato le fotografie di Norman Parkinson realizzate per Vogue dicendo: “Il rosa è il blu navy dell’India.”

Un commento che sintetizza la teoria dello lo storico del colore Michel Pastoureau, secondo il quale i colori non hanno significato di per sé, ma assumono determinate funzioni a seconda della società e della cultura in cui essi sono utilizzati. Come racconta Valerie Steele, storica della moda e curatrice della mostra Pink: The History of a Punk, Pretty, Powerful Color, gli assistenti di Schiaparelli rimasero folgorati dall’intensità del suo rosa shocking, facendo notare alla stilista che non sarebbe stato appropriato utilizzare quella particolare tinta, poiché associata con la cultura africana e afro-americana. Ovviamente, lei non li ascoltò.

Il rosa nella cultura Black e y2k

Steele ricorda infatti come il rosa sia un colore fortemente associato alla comunità e alla cultura Black, basti pensare ai completi sgargianti dei sapeur congolesi e all’iconica foto del pugile Sugar Rey Robinson di fronte alla sua Cadillac rosa o, nella contemporaneità, al rapper Cam’ron che, nel 2002, si presenta ad un after party di una sfilata indossando un total look con pelliccia baby pink. L’iconico outfit ha fatto scuola e non solo ha ha ispirato una nuova sfumatura Pantone, il Killa Pink, ma ha popolarizzato il colore all’interno del mondo Rap e R&B, passando da Kanye a Rihanna, fino a Nicki MinajSolange e Janelle Monàe.

Perché se esiste un decennio che è diventato sinonimo di rosa, questo è il primo degli anni Duemila, momento in cui la tonalità diventa simbolo di frivolezza, edonismo e di un culto delle celebrità veicolata tramite flip phone glitterati, clapback t-shirt. Un colore e uno spettro di significati che sono stati recentemente riappropriati e reinterpretati dalla schiera di bimbosex worker e icone contemporanee come simbolo di emancipazione e autoaffermazione. Un esempio lampante di questa operazione è quella di Buffalo Zine, che ha tinto il suo ultimo numero completamente di rosa, ospitando gli interventi di alcune delle figure intellettuali più rilevanti del momento, offrendo nuove interpretazioni a questa cromia.

Il rosa nella cultura queer, attivismo e lotta ai diritti civili

Il rosa difficilmente passa inosservato e nel corso degli ultimi decenni è stato spesso associato a movimenti per i diritti civili. Basti pensare alla Gulabi Gang nel Banda District dell’Uttar Pradesh nel nord dell’India, uno dei luoghi più poveri del paese, dove un gruppo di donne vestite con sari rosa shocking manifesta regolarmente per denunciare la cultura patriarcale e gli abusi subiti da mariti e familiari. Non si possono menzionare poi i Pussy Hat indossati da migliaia di donne durante le marce scatenante dal movimento MeToo del 2017.

Infine il rosa è indissolubilmente legato alla comunità queer, riappropriatasi a partire dagli anni ’70 e ’80 del triangolo rosa, in tedesco die Rosa-Winkel, un simbolo di oppressione che durante gli anni del nazismo etichettava e identificava gli uomini gay, ultimi tra gli ultimi all’interno dei campi di concentramento. Ancora oggi rimane un simbolo e ricordo di atrocità che non dovrebbero mai più ripetersi, ma che purtroppo diventano più vicine che mai in un contesto politico culturale dove presidenti invadono altri paesi con il pretesto di liberarli dall’ideologia gender, e politici internazionali urlano falsità, attaccando libertà imprescindibili come l’aborto.

L’influenza di questa moltitudine di riferimenti estetici, politici e culturali ha contribuito negli ultimi decenni a un continuo ribaltamento dei significati del rosa, un colore che racchiude al suo interno sentimenti di gioia, audacia e amore. Questa tonalità è intrinsecamente associata ai movimenti rivoluzionari e a coloro che non corrispondono al canone bianco, eterosessuale e cisgender.

Alla luce di questa osservazione, ritorniamo ora al punto di partenza di questo excursus storico, la collezione F/W 2022 di Valentino. La volontà di Pier Paolo Piccioli di rendere il rosa un colore assoluto non appare più dunque come un gesto puramente estetico, ma un’operazione dal tono politico, in cui lo spazio viene invaso da una onda rosa shocking dove il colore non uniforma e formatta i corpi, ma li libera dai pesanti costrutti di una culturale che per troppo tempo ha soppresso la diversità. Poiché se è vero che è la società a determinare il significato dei colori, oggi più che mai è importante pensare in rosa.

Artwork di Elisa Paiardi

Quelle volte in cui la moda ha riempito di junk food le passerelle e gli editoriali

aka quando catene di fast food, minimarket e chioschi take-away hanno fatto irruzione nella cultura visuale della moda, per restarci 24/7.

Know Your Fashion History è la rubrica di i-D che rintraccia i momenti salienti della storia della moda contemporanea, che ne influenzano e manipolano il presente determinandone spesso il futuro. Ogni articolo si propone di raccontare fenomeni legati all’industria della moda, i suoi personaggi chiave e le sue ripercussioni.

Oggi parliamo di pizze al trancio, merendine, hot dog e smoothies, in poche parole del “junk food” (o “cibo spazzatura”, in italiano) attorno a cui si è creato un immaginario ben definito, che parte dai drive-in statunitensi degli anni ‘50 per arrivare alle catene di fast food internazionali. Quello del junk food è un universo visuale così potente che si è depositato sulla cultura collettiva, influenzando anche la progettazione di moda e ispirando campagneeditoriali e collaborazioni. Analizziamo dunque l’impatto che il junk food ha avuto sulla moda.


Una delle citazioni attribuite al visionario—e problematico—imprenditore di McDonald’s Ray Kroc è: “Non siamo nel business degli hamburger, siamo nello show business.” Una frase che dichiara apertamente la contraddizione dell’industria del fast food, un mondo radicato nella macchina economica turbocapitalista capace di offrire un’esperienza totalizzante e immersiva.

Evoluzione di quei non-luoghi transitori come taverne, diner e aree di servizio, con l’avvento del fordismo i fast food hanno adottato il sistema della catena di montaggio, trasformandosi prima in spazi di incontro della classe lavoratrice, poi in mete collettive indiscriminate attraverso massicce azioni di rebranding e merchandising. Il loro punto di forza? Ovviamente il junk food: cibo dal packaging sgargiante, un tasso glicemico vertiginoso, un gusto riconoscibile e un prezzo accessibile. Ma cosa ci ricorda l’acquisto di un prodotto già confezionato, la gratificazione istantanea e immaginari invadenti e immersivi? È la stessa matrice che si trova anche nell’industria della moda.

E se da un lato si potrebbero spendere ore a snocciolare le criticità presenti in questi sistemi (ed è giusto e urgente farlo), dall’altro è impossibile ignorare le collisioni di questi sistemi simili e l’impatto che il cibo spazzatura ha avuto sugli immaginari di moda. L’universo estetico e concettuale che risiede nelle catene di fast food, nelle confezioni di merendine e nelle gestualità collettivamente condivise come prendere una pizza al trancio per strada o dei pop corn al cinema si sono infatti radicati nella coscienza condivisa, inserendosi nel tessuto urbano e sociale, diventando così un palcoscenico di narrazioni ed elementi che—volenti o nolenti—fanno parte dell’alfabetizzazione visuale collettiva, anche quella della moda. Ecco alcune occasioni in cui moda e junk food si sono contaminati a vicenda.

Il cibo spazzatura e i suoi effetti su moda, stile e costumi

Da quando si sono venute a creare mitologie contemporanee prettamente statunitensi—come la Coca-Cola o i drive-in anni ‘50—l’idea di junk food si è depositata sulla coscienza collettiva ispirando designer e progettisti di moda. In particolare, a stimolare la loro creatività è stata la dimensione camp e pop che contraddistingue spazi come fast food, diner, minimaket e stand di bibite e gelati, un immaginario sicuramente stereotipato e mitizzato, che però ha attecchito sulla cultura visuale collettiva diventando un’icona kitsch del nostro tempo.

In Italia, un esempio lampante dell’ossessione per il sogno americano (del junk food) è stata la sottocultura dei Paninari. Nata negli anni ‘80 a Milano, questa estetica e corrente orbitava attorno a Burghy, la catena di fast food italiana che aveva aperto nel ‘81 in Piazza San Babila. Ispirandosi dichiaratamente ad aziende statunitensi come McDonald’s—da cui verrà successivamente acquistata nel 1996—Burghy diventa l’incarnazione di un boom economico squisitamente italiano, dove la cultura dei consumi si stava appropriando di ogni aspetto della vita e l’edonismo era l’unico credo.

Musica pop, culto del brand e un distacco radicale da tutto ciò che era impegno politico, attivismo e lotta di classe: ecco i valori del Paninaro, una figura la cui unica missione è mostrarsi e consumare. Nella moda, lo stile del Paninaro diventa una divisa sociale, uno status raggiungibile con piumini Moncler, scarponcini Timberland, felpe ivy league e bomber di jeans. Vigevano una serie di regolamenti estetici e di atteggiamento, raccolti e raccontati nelle pubblicazioni di riferimento del gruppo: il fumetto Cucador e la rivista Preppy e Paninaro.

Nell’alta moda, è invece il designer americano Jeremy Scott—noto per la sua moda surreale e controversa—a fare del junk food la propria bandiera, inserendo i suoi simboli all’interno prima della sua collezione Fall 2006 e successivamente nella collezione per Moschino F/W 2014, interpretata da Lily McMenamy per Dazed nell’edioriale Supersize Me del numero dell’autunno 2014.

Panini, hot dog, pizze al trancio, ma anche merendine, ciambelle e cereali diventano così gli strumenti semiotici per criticare una società dei consumi alla deriva, giustapposte a slogan impegnati come “Eat the Rich.” Una pletora di simboli a cui il designer ha fatto ritorno più recentemente per la collezione Moschino Resort 2022, dove ha estetizzato il culto del sogno americano in chiave didascalica e disillusa—stiamo parlando di quel total look da hot dog e di quel cappello a forma di pancake, ricordi?

I look più camp firmati Scott sembrano essere ispirati anche a produzioni fotografiche leggendarie, come la serie del 2001-2002 Live Your Best Life del fotografo e artista americano David LaChapelle, uno degli image maker più rilevanti della fotografia di moda contemporanea (e non solo). Scatti come Death by HamburgerAll U Can Eat o I Buy a Big Car for Shopping immortalano i totem della società dei consumi—burger, hot dog, lattine di Coca-Cola—come figure uscite direttamente da colossal fantascientifici. Immortalati come meteore aliene, villain di supereroi o mostri salvifici e misteriosi come King Kong—qui interpretato da un hot dog—questi simboli sacrali vengono accompagnati da figure femminili e scelte di styling precise, sfumando i confini tra fotografia di moda e arte, e mostrandosi semplicemente come valvola di sfogo semiotica e visuale.

Le collaborazioni tra catene fast food e brand di moda

Le catene di fast food sono, essenzialmente, dei brand. Non ci stupisce dunque che nel corso degli anni si siano instaurati dei sodalizi tra queste aziende e quelle di moda per la realizzazione di oggetti che sfociassero in entrambe le realtà. Uno degli esempi più recenti è Wrapuette, la borsa in pelle Y2K-inspired da 198 sterline firmata KFC. Figlia della cultura dell’hype, questo progetto non è di certo il primo a monetizzare sulla nostalgia collettiva degli anni ’00, ma è forse uno degli esempi più lampanti di come una catena di fast food statunitense abbia saputo utilizzare format tipici della moda—in questo caso, il servizio fotografico di moda con casting, styling e scatti editoriali annessi—per commercializzare un prodotto.

Eppure, esistono anche esempi di sinergie creative che hanno saputo celebrare realmente l’eredità storica di questi spazi che, ormai da più di un secolo, sono parte integrante del tessuto urbano e sociale delle città. Un esempio locale è la collaborazione del 2021 tra il brand di workwear Carrhart WIP e Giannasi, storica polleria milanese e centro nevralgico dei pranzi domenicali, cene improvvisate e merende impegnative della zona. In questo caso non si tratta propriamente di fast o junk food—la gastronomia di Ginnasi è notoriamente di altissima qualità—ma si tratta comunque di un chiosco che ha fatto da epicentro sociale, rendendo lo spazio uno dei punti di riferimento della città e della comunità locale—a cui era diretta la capsule, i cui ricavati sono stati devoluti all’associazione Pane Quotidiano Onlus di Milano.

Un altro esempio di collaborazione che ha saputo riconoscere la dimensione sociale che anima il settore del fast food è stata la capsule realizzata dal visionario brand newyorkese Telfar nel 2021 per commemorare i 100 anni dalla fondazione di White Castle, catena di fast food statunitense nata da un’impresa familiare negli anni ’20 e ora una delle potenze del settore. Realizzata per 10.000 dipendenti—e successivamente venduta al pubblico—la collezione era composta da magliette, cappellini e durag, un accessorio molto richiesto dai dipendenti della catena che ha fatto così il suo primo ingresso in uno spazio in cui le divise fanno ancora troppo spesso riferimento a tradizioni sartoriali bianche e occidentali. Partendo dall’ossessione che il designer provava per quel luogo da bambino, il progetto si è staccato dalle dinamiche di consumo indirizzando tutti i profitti della vendita al Robert F. Kennedy Human Rights Liberty and Justice Fund, ente che paga le cauzioni per i minori trattenuti a Rikers Island.

Quando la moda è entrata nei luoghi del junk food

Uno degli elementi che conserva la maggiore carica simbolica legata al cibo spazzatura è—oltre, ovviamente, ai piatti serviti e alle persone che vi orbitano attorno—lo spazio che li contiene. Stiamo parlando di diner, catene di fast food, chioschi, minimaket, kebab shop e locali per cibo d’asporto; architetture ibride, non luoghi, superfici colme di input visuali e meta di pranzi del liceo o delle gite notturne tra una serata e un afterparty.

A rendersi conto delle potenzialità espressive di questo spazio sono stati i designer georgiani Demna e Guram Gvasalia di Vetements, che hanno utilizzato la location del McDonald’s negli Champs Élysées parigini come sfondo per la sfilata S/S 20 del marchio—nel 2021 il marchio realizzerà anche l’identità per una Combo Meal vegetariana in partnership con il concept store russo KM20. Ossessionati dall’estetica corporate, adottata anche da McDonald’s e altre catene di fast food, il duo ha voluto sovvertire il sistema di valori che rappresenta inserendo nella collezione critiche feroci e puntuali al capitalismo e alle sue derive, coma la gentrificazione, la crisi finanziaria, i falsi miti di redenzione economica.

Un brand che invece ha voluto celebrare un luogo simbolo della cultura culinaria inglese è Gucci che, per la campagna Pre Fall 2018 del brand ha inscenato un siparietto tanto credibile quanto inverosimile: Harry Styles si dirige con la propria gallina di compagnia a fare uno spuntino nel Fish & Chips del quartiere. Per quanto densa dell’effetto di straniamento dovuto alla presenza degli animali—fedeli compagni delle campagne Gucci—la campagna è una parentesi sospesa e delicata che eleva lo spazio del Fish & Chips a punto di ritrovo per la comunità, luogo di condivisione e di sincera convivialità.

Diverso è lo spazio del minimarket (conosciuto come “bodega” a New York e come “Off Licence” a Londra), uno spazio anonimo in cui i prodotti ipersaturi dalle grafiche pop sono 50% lo stretto necessario per la casa e 50% munchies, snack, bibite gassate e pickle da asporto. Il minimarket offre così un bombardamento sensoriale ideale per fare da sfondo a editoriali o campagne di moda, com’è successo per la recente campagna F/W 21 Diesel, dove la logomania del brand ha invaso e pervaso ogni superficie presente, o per l’editoriale Le goût des robes scattato da Steven Klein per Vogue Francia nel 2007, dove le figure statuarie di Lily Donaldson, Guinevere van Seenus e Kinga Rajzak spiccano a contrasto con le pareti cariche di prodotti e i frigoriferi stracolmi di cibo.

Ma a iniettare lo spirito ribelle dentro alle casse di lattine e nei neon che campeggiano sui minimarket sono l’editoriale di copertina della cover star Rihanna per il numero di Paper del marzo 2017 e lo shooting realizzato da Heather Glazzard per il numero S/S 21 Fetish Issue della rivista King Kong. Nel primo vediamo una Rihanna ribelle e sfacciata fare irruzione nel minimarket, mangiare qualche snack e forse intimorire qualche cassiere con i propri look dalle influenze punk, ma anche street e preppy. Un mix di stili che sembra emulare la sovrabbondanza di prodotti presenti nel supermercato 24/7, innescando clash visuali che riverberano quelli già presenti nello spazio.

La moda si appropria così di un luogo concettualmente lontano e opposto a sé, inserendo i propri spettri e gettando la propria ombra sugli scaffali stracolmi che straripano di junk food, di un cibo tanto desiderabile quanto poco salutare. Un effetto di alienazione reciproca ripreso dagli scatti di Heather Glazzard per King Kong, che portano questa dimensione all’estremo immortalando TAYCE in total look fetish Richard Quinn in un habitat tanto straniante quanto familiare. Perché, in fondo, esiste forse un accessorio migliore per il tuo fit da serata di quello snack salvavita preso al volo prima di tornare sulla pista?

Nuova settimana, nuova ondata di fashion news! Perché, come sempre, l’industria che non dorme mai (aka, la moda) non concede un minuto di respiro quando si tratta di lanciare nuove collaborazioni, mostre e campagne.

Dall’installazione del corso Comunicazione e Nuovi Media della Moda dell’Università IUAV di Venezia alla campagna Supreme scattata da Harmony Korrine starring Julia Fox e la cover star di i-D Tyshawn Jones, concludiamo questa settimana con una rassegna di appuntamenti, drop e partnership creative che potresti aver perso in questi giorni.

NO-ISBN, l’installazione-azione del corso Comunicazione e Nuovi Media della Moda dell’Università IUAV

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FOTOGRAFIA DI NICHOLAS BEHRENS

Parte del Laboratorio di publishing del corso di Comunicazione e Nuovi Media della Moda dell’Università IUAV di Venezia, NO-ISBN è una mostra-installazione-azione che raccoglie i lavori delle studentesse e degli studenti del corso, un percorso espositivo che ci guida tra ritagli, crop e zoomate nell’editoria indipendente di moda internazionale. Scavando nella Biblioteca dell’Università, il corso ha preso in prestito i processi di appropriazione del progetto omonimo, costituito da una mostra e un libro, prodotto a partire dal 2015 dal Salon für Kunstbuch di Vienna, volto a raccogliere un ampio numero di pubblicazioni che non appartengono al mercato internazionale

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FOTOGRAFIA DI NICHOLAS BEHRENS

Nasce così una produzione di immagini e di azioni interne alla Biblioteca che depistano il lettore, sfuggendo ai parametri di archiviazione, ai sistemi di consultazione e ai momenti di lettura tradizionali. Accanto agli esiti del laboratorio, NO-ISBN include una sequenza di poster frutto dell’osservazione e dissezione di riviste di moda come A Magazine Curated By, Archivist, Dot Dot Dot, Purple, Fantastic Man, Flair, Girl Like Us, Kaleidoscope, NOT, PIN-UP e Purple. L’editoria viene così intesa come scenario, come terreno culturale e professionale ma anche come esercizio collettivo, in cui processi, pratiche e strumenti sono messi a servizio di una dimensione comunitaria, collaborativa ed esperienziale.

“Boro”, la mostra personale di Matteo Messori

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FOTOGRAFIA DI FABIOLA CATALANO

Ispirate alla tecnica giapponese Boro, una forma di rammendo artistico, e alle teorie antropologiche di Ernesto de Martino, le opere di Matteo Messori, che spaziano dal video alla pittura, fino a delle sculture indossabili, innescano delle interazioni inedite tra l’opera, pubblico e contesto. In questo modo, la mostra tocca concetti come la “crisi della presenza”, trascendendo la dimensione di oggetto, artefatto o opera per imprimersi sulla sensibilità e l’interiorità di chi ne fruisce. Crisi dei valori, caducità della vita e scarti emotivi diventano i percorsi che legano le opere eterogenee dell’artista, rendendo sempre più labili i confini tra discipline e percezioni. Organizzata da State Of in collaborazione con Galleria Ramo e Atelier Florania, la mostra è visitabile dal 28 aprile al 26 maggio 2022 presso spazio Miori Showroom e sarà accompagnata da un testo critico di Rossella Farinotti, che esplorerà la poetica dell’artista emiliano.

La campagna Supreme scattata da Harmony Korine

Il regista di “Gummo” e sceneggiatore di “Kids” ha collaborato con il brand newyorkese per la realizzazione della campagna S/S 22 del brand. Conosciuto per la sua estetica core e per l’immaginario underground di cui è diventato portavoce, il regista ha filmato e scattato la nuova collezione Supreme seguendo in un viaggio decisamente carico di edonismo e scenari bizzarri niente meno che Julia Fox e la cover star di i-D Tyshawn Jones. Ambientata su un aereo debosciato e fuori controllo, la campagna è intrisa della vibe eccentrica e ribelle che contraddistingue l’universo del brand con base a New York. E noi avevamo bisogno solamente di questo per iniziare al meglio il weekend.

8 BY YOOX

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IMMAGINE PER GENTILE CONCESSIONE DI YOOX

Don’t be afraid to Fall, ecco il nome della nuova collezione 8 by YOOX A/W 22-23, un racconto che ci guida tra le vicende di un gruppo di amici in una giornata e nottata all’insegna della libertà, della spensieratezza e di quelle emozioni che speri di poter ricordare per sempre. Stampe, tessuti e palette di colori brillanti sono gli elementi fondanti della nuova collezione, che si sviluppa come un viaggio nell’interiorità e nei sogni degli 8 protagonisti della campagna. Seguendo il programma Infinity Product Guide del brand, uno strumento che si assicura che tutti i capi del brand siano creati secondi i principi di sostenibilità e circolarità entro il 2025, la collezione è realizzata partendo da materiali che soddisfano questo registro. In questo modo, l’anima e la filosofia YOOX si fondono inscindibilmente, creando una collezione che rappresenta l’essenza del progetto nella sua totalità.

BRAIN DEAD X OAKLEY: OAKLEY FACTORY TEAM

Brain Dead e Oakley annunciano il ritorno di Oakley Factory Team, il progetto collaborativo che coinvolge designer, artisti e progettisti nella rivisitazione di prodotti e design iconici dei brand per consegnarli alla contemporaneità sotto una nuova forma. Sperimentazione, rivoluzione ed evoluzione sono le linee guida del progetto, che questa volta vede la rinascita dell’iconico modello degli anni Duemila Oakley Flesh in tre nuove versioni, tra cui due in edizione limitata e una parte della linea Oakley Mainline. Pratiche e avant-garde, le nuove Oakley Flesh vengono rese più leggere e versatili rispetto all’originale, inserendo delle applicazioni ovali in gel per offrire un’estetica ancora più futuristica. Disponibile da ora sul sito Brain Dead e in alcuni punti vendita selezionati, il modello viene accompagnato anche dalla versione realizzata per la mainline nella sua forma più pura e concettuale.

La campagna “Orgoglio sempre” di Dr. Martens

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La comunità LGBTQIA+, la cultura e le urgenze che la accompagnano sono radicate nel DNA di Dr. Martens. Sin dall’inizio, il brand è stato portavoce delle istanze della comunità, facendo da ally e supportando le azioni sollevate dalla community. In occasione del primo LGBTQIA+ History Month italiano, e anche durante tutto l’anno, il brand dà voce alla comunità con il lancio di un’edizione limitata dell’iconico modello 1461: una scarpa monocromatica decorata con i colori della bandiera “Progress Pride” disegnata da Daniel Quasar. Solamente nel 2022, Dr. Martens ha donato circa € 253.000 a enti di beneficenza in tutto il mondo e, in Italia, sostiene Refuge LGBT, ente di beneficenza che offre ospitalità, supporto psicologico e legale e mediazione professionale ai giovani vittime di omofobia.

Il progetto di Maison Valentino, Air France e KLM

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IMMAGINE PER GENTILE CONCESSIONE DI VALENTINO

Air France, KLM e Maison Valentino annunciano un accordo a sostegno del programma corporate SAF (Sustainable Aviation Fuel), un progetto che ha come obiettivo quello di incoraggiare le aziende a virare verso una percezione e utilizzo degli aeromobili più sostenibile. Promuovendo una concezione di trasporto conscious-driven, questa iniziativa fa parte della transizione della maison verso un’impronta ambientale meno impattante, un modello di business che sta cercando di implementare attraverso tutti i settori e distretti dell’azienda. Ma come funziona? Attraverso il programma SAF, i clienti corporate di Air France e KLM—come Maison Valentino—dopo aver stimato le emissioni di CO2 associate ai loro viaggi, possono determinare il contributo annuale che desiderano apportare a tale programma e agire di conseguenza. I valori del brand si espandono così anche nella dimensione del viaggio, un percorso verso la sostenibilità che vuole sensibilizzare su un uso più consapevole e attento sulle ripercussioni che i viaggi in aereo hanno sull’ecosistema e sulle comunità a livello globale.

OUR LEGACY WORK SHOP – STÜSSY SPRING 2022

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l brand svedese e il marchio simbolo dello streetsyle americano hanno scavato nei propri archivi per dare nuova vita alle rimanenze di magazzino in una capsule primaverile versatile, sofisticata e interamente upcycled. Veicolata con una campagna editoriale che celebra lo spirito underground, la creatività illimitata e gli immaginari che contraddistinguono e legano i brand, la collezione entra a fare parte del panorama di attivazioni e collaborazioni più consapevoli che ricercano nelle radici del proprio heritage nuova benzina per evolvere il proprio universo progettuale. Versatile, sofisticata e radicale, la collezione incarna la sinergia creativa di due marchi simbolo della contemporaneità.

Desigual x Stella Jean

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Ispirata ai tessuti wax, che fanno parte dell’eredità culturale haitiana, la capsule firmata da Stella Jean intinge la storia Desigual dell’autenticità e della gioia vibrante che contraddistingue il lavoro della designer italiana di origini haitiane. La tradizione viene decostruita a favore di grafiche più astratte, le forme diventano più organiche e i capi stampati si manifestano in un massimalismo armonico ed elegante. La campagna, scattata da Daniel Jackson, celebra i capi della collezione che spaziano da vestiti estivi a magliette che celebrano Roma (la città in cui Stella vive e lavora) per un totale di 25 design firmati dalla designer. Attingendo dall’architettura coloniale e dall’heritage di Desigual, la capsule celebra l’unione di una mente creativa e della sua visione per il brand spagnolo.

La collezione Eyewear S/S 2022 Off-White™

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Scattata dal fotografo Lukas Wassmann nel backstage dell’ultima sfilata S/S 22 Off-White, “Spaceship Earth: an Imaginary Experience”, e interpretata da Adut Akech e Sang Woo, la nuova collezione di occhiali genderless, composta da 14 modelli in acetato e metallo, si inserisce nello spettro di prodotti audaci e d’impatto che contraddistinguono il brand di Abloh. Il design è una rivisitazione in chiave Off-White di elementi quotidiani e familiari, espressione della provocazione e della sovversione di canoni che fanno parte del DNA del marchio. Interamente prodotta in Italia e legata all’eredità culturale del brand, la collezione è disponibile in versione internazionale e “Asian fit” sul sito del brand e in retailer selezionati in tutto il mondo.

“PAPERWORK”, la linea beauty di Off-White

Off-White è un brand travolgente, immersivo, che ha saputo tracciare connessioni tra discipline, promuovendo una concezione della moda che mixasse design industriale a graphic design, cartamodellistica a design sonoro, in un complesso totalizzante di stimoli, significati e pratiche. Dunque, era solo questione di tempo prima che il brand sbarcasse anche nel mondo beauty, un settore in grande crescita e ambiente in cui la sperimentazione e la ricerca si fanno più interessanti che mai. Ecco che nasce “PAPERWORK”, la linea beauty di Off-White che debutta internazionalmente con una prima serie di fragranze, ideate da Virgil Abloh in collaborazione con esperti del mondo dei profumi Alexis Dadier, Jerome Epinette, e Sidonie Lancesseur. Il remix, processo tipicamente utilizzato dal brand, si manifesta nelle quattro Solutions attraverso la commistione di profumi classici e naturali con picchi di fragranze nostalgiche e decise. Se anche tu, come Virgil, pensi che il profumo sia un’estensione di te, corri sul sito di Off-White per accaparrarti la tua prima boccetta.

La Clic Bag di MSGM

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IMMAGINE PER GENTILE CONCESSIONE DI MSGM

Prendi una borsa, la chiudi e fa “CLIC®”. Un rumore che diventa il simbolo della nuova it bag firmata MSGM, famiglia di accessori che raccontano l’universo irriverente, bold e senza compromessi per cui si è fatto un nome il brand italiano. Parte della collezione S/S 2022, la MINI CLIC® è il modello pilota di questa rassegna di design, una versione compatta, agile e versatile che si inserisce nel panorama delle minibag della stagione. Contraddistinta da colorate stampe Vichy, motivi daisies e “tuttifrutti” che rimandano al concept di picnic da cui nasceva la collezione collezione, la borsa è disponibile anche in versione monocromatica in colori fluo. In occasione del lancio dell’it bag, il brand presenta una campagna digitale realizzata interamente in 3D/CGI, che gioca con il nome della borsa e la sua qualità onomatopeica: sull’incessante ticchettio del timer di una bomba. E, infatti, il tempo sta per scadere, perché la borsa sbarcherà nei negozi MSGM a partire da questo mese.

Crediti

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