Apologia di un matematico
Filippo La Porta — 17 Giugno 2021

Io la matematica la odio. Anzi, pensavo di odiarla, come dirò tra un po’. In prima media venni rimandato in matematica da una prof sadica, e da allora fino alla terza liceo i miei genitori (preoccupati) mi costrinsero – umiliandomi! – a prendere lezioni private. Da una rapida inchiesta tra amici e conoscenti ho scoperto che la matematica è materia-incubo per la stragrande maggioranza dei miei connazionali (Giorgio Manganelli era ripetutamente mortificato dalla sua insegnante di liceo).
Da allora ammiro – con senso di frustrazione – i matematici, considerandoli uomini superiori, ad es. Odifreddi, anche quando non parlano di matematica. Il che è palesemente assurdo, oltre che un tantino volgare. Diceva Stendhal che è segno di volgarità ammirare chi ci intimidisce. Poi ho scoperto che proprio Odifreddi – ad es. sdottoreggiando su Dante – ha pure detto una quantità di corbellerie, ma quella ammirazione è dura a morire. Ora, ho recentemente scoperto su una bancarella un libello aureo, che consiglio a tutti, e che in parte mi ha riconciliato con la matematica: Apologia di un matematico di Godfrey H. Hardy (Garzanti 1989). L’autore, specialista in “teoria dei numeri” (qualsiasi cosa voglia dire), è stato un matematico importante (scomparso nel 1966), ed è divenuto borsista a Cambridge già a 23 anni. Infanzia vittoriana molto colta, prodigio di intelligenza, stravagante, appassionato di cricket, antinarciso (assai bello ma contrario ad essere fotografato), amico di Bertrand Russell e affascinato dal matematico indiano naif Ramanujan (che fece venire in Inghilterra), così ci appare nel bel ritratto, a mo’ di introduzione, di Charles P. Snow. Amava sia gli Usa che l’Urss, teneva una grande foto di Lenin nella sua stanza. Preferiva a quelli che definiva i “grandi sederi”, le persone svantaggiate, “i poveri, gli infelici, i timidi”.
All’inizio del libro – lievemente malinconico poiché il suo autore ritiene che un matematico non deve essere troppo vecchio, quando si è indebolito il suo desiderio di creare – leggiamo subito che «la maggior parte delle persone è così spaventata dalla matematica che è portata, in tutta sincerità, a esagerare la propria stupidità nella materia». Se possiamo apprezzare una bella partita a scacchi allora dobbiamo pensare che un problema di scacchi non è che un esercizio di matematica pura, e anzi è matematica banale poiché per quanto originali e sorprendenti siano le mosse «gli manca qualcosa di essenziale», non è un problema importante. A proposito di bellezza della matematica Hardy ci introduce a due teoremi di matematica formulati nell’antica Grecia (i greci sono stati i primi matematici), sui quali si fonda buona parte della matematica, e che può capire qualsiasi persona intelligente, benché non esperta, in meno di un’ora (altri teoremi sarebbero altrettanto belli, come quello di Cantor o la teoria degli insiemi ma richiederebbero troppe spiegazioni).
Si tratta del numero infinito dei numeri primi (Euclide) e dei numeri irrazionali (Pitagora): il procedimento seguito è quella della reductio ad absurdum e della smentita di una ipotesi fatta all’inizio dei due teoremi (nel primo caso che la serie dei numeri primi abbia una fine, nel secondo che a e b della frazione indicata dalla radice quadrata di 2 non hanno fattori comuni – questa seconda cosa vi suonerà più esoterica ma non importa). Se seguite con pazienza il ragionamento di Hardy, giungendo alla conclusione dei due teoremi, scoprirete con emozione che i due teoremi sono “belli”: esprimono serietà, armonia, ordine, razionalità, contengono “idee significative” o anche “profonde” (dove “profondo” ha a che fare con “difficile”). L’autore aggiunge che non servono quasi a niente, non hanno alcuna utilità pratica, poniamo, per un ingegnere o per un medico, anche se questi si avvalgono della matematica (nel campo delle applicazioni pratiche ci si occupa di numeri piccoli). La matematica non favorisce la felicità del genere umano, non aumenta il benessere collettivo, può solo alimentare un abito mentale elevato (mentre molta “matematica elementare”, ha una utilità pratica, ma è quella più noiosa, “quella che ha minor valore estetico”).
Qui arriviamo al nucleo più originale del pensiero di Hardy. Le forme create dal matematico, come quelle del pittore o del poeta, devono essere belle (le idee devono legarsi armoniosamente)! La matematica ha a che fare con l’arte. L’interrogativo fondamentale è il seguente: posto che esiste una “realtà fisica” (il mondo materiale, studiato dalla fisica), a noi esterno, per quanto riguarda invece la “realtà matematica” come va considerata? Una realtà mentale, creata da noi, o è indipendente? Qui la risposta di Hardy è straordinaria: la realtà matematica è fuori di noi, il nostro compito è di scoprirla e di osservarla. I teoremi che chiamiamo «pomposamente nostre creazioni sono semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni». Inoltre: la realtà del fisico ha pochissimi degli attributi che il senso comune accorda alla realtà: una sedia è un insieme di elettroni turbinanti, una stella non è ciò che sembra. Mentre “2” o “317” sono simili a quello che sembrano essere. “317” è un numero primo non perché lo pensiamo noi, ma perché è così (se riuscite a seguire i due teoremi di prima hanno una conclusione inesorabile, oggettiva).
Sapere che anche in matematica la bellezza non è interamente soggettiva, che la verità di qualcosa non totalmente in nostro potere – e anzi si impone a noi (è così!) – beh, ha qualcosa di liberatorio. E se l’arte non inventa la realtà né la rispecchia, piuttosto la rivela, anche la matematica, secondo Hardy, rivela un mondo che già esisteva, ne mostra ad un tratto le relazioni e connessioni interne finora invisibili. Finché dura l’effetto di questa esaltante lettura cesserò di odiare la matematica, e anzi mi piacerà contrapporre la figura di Hardy, la sua indole sensibile e delicata, alla figura della mia professoressa sadica delle medie.
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