La storia di Anni e Josef Albers

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    Ai genitori lo presentò soltanto nel 1925, subito dopo che Josef Albers aveva ottenuto la nomina a Maestro nel Bauhaus, vale a dire un lavoro retribuito. Ma prima di accoglierlo nella casa della sua ricca famiglia di ebrei convertiti a un fervido cristianesimo chic a Berlino, Annelise Else Frieda Fleischmann, di 11 anni più giovane, gli comprò un vestito con i soldi ottenuti dalla vendita dei suoi gioielli di perline a Weimar. Ora avrebbe potuto sposare l’artista sperimentale che assemblava frammenti di vetro rotto e fino a quel momento non aveva venduto neppure un pezzo. Lo fece il 9 maggio dello stesso anno, traslocando poi con lui a Dessau, dove nel frattempo la scuola si era trasferita. Si erano conosciuti tre anni prima, quando lui l’aveva aiutata a superare l’esame di ammissione. Diversissimi per indole e provenienza sociale, diversissimi perfino nella loro produzione artistica, Anni e Josef Albers furono insieme i pionieri del modernismo targato Bauhaus e insieme costruirono la strada del design del Novecento. Nel libro appena pubblicato da Phaidon, Anni & Josef Albers, il sottotitolo recita Equal and Unequal, a sottolineare l’eterna dicotomia che ha unito, anziché dividere, i coniugi Albers. L’autore Nicholas Fox Weber (e curatore della Fondazione Albers) dice: «È la parola “unione” a definire quello che esisteva tra Anni e Josef. Chiamarlo matrimonio avrebbe implicato una serie di aspettative riguardo al dominio dell’uno sull’altra o viceversa, o la fedeltà sessuale. Ma se penso agli Albers, sono stati la coppia più unita che io abbia mai incontrato. Condividevano la stessa idea di quello che contava nella vita, cioè la creatività artistica, e anche la stessa idea dell’integrità e della qualità dell’opera d’arte. Erano diversi, ma i loro sentimenti nei confronti dell’arte precolombiana, l’orgoglio per il successo della produzione individuale e il gusto per le opere dei contemporanei, erano gli stessi».

    Anni Albers, arazzo in seta, 1926

    Appassionata all’arte fin da bambina, Anni crebbe in una famiglia dell’alta borghesia tedesca con il mito della solidità: economica, di pensiero, perfino d’arredo. Mobili Biedermeier che lei detestava nonostante Josef, figlio di un artigiano della Ruhr, li giudicasse espressione di quel “ben fatto” che per lui era sinonimo di modernità –, tendaggi, drappeggi, e un atteggiamento a dir poco conservatore nei confronti dell’arte: quando parlò del Bauhaus al padre, lui le chiese: «In che senso “nuovo stile”? Abbiamo avuto il Rinascimento e il Barocco. Non ci sono altri stili». La fortuna di Anni, al di là della sua determinazione a fare arte, fu la madre, attratta da un mondo che non capiva ma che catalogava nella casella delle attività adatte a una signorina bene, purché fatte nelle scuole e con i maestri migliori (prima il pittore impressionista Martin Brandenburg, poi la Scuola di arti applicate di Amburgo e, a Dessau, anche Paul Klee). In comune, con il pittore che divenne suo marito, Anni aveva la certezza che l’arte potesse essere fonte di infinite possibilità di cambiamento: di idee, di utilizzo dei materiali, di tecniche sperimentali, della vita quotidiana stessa. «Entrambi credevano fermamente nella tecnica e nei materiali, evitando espressioni personali o tentazioni autobiografiche nei loro lavori, lasciando che fossero il colore e le linee a esprimere la loro voce», racconta Nicholas Fox Weber. Lei al telaio, lui su tela, sovvertirono il carattere statico delle forme per metterne in evidenza l’instabilità attraverso la ripetizione di modelli geometrici astratti. Uguali e inuguali. «Non lavorarono mai insieme su un pezzo», dice Fox Weber, «ma ebbero sempre un grande rispetto per l’arte dell’altro». Entrambi, inoltre, utilizzarono un vocabolario di forme facili, con elementi semplici che riuscissero però a creare ritmo. «All’inizio condivisero la passione per quello che si potrebbe definire il “modernismo internazionale” del Bauhaus, con una netta preferenza per molto di ciò che era tradizionale nel design tedesco. Poi si sottrassero via via all’architettura e alla pittura e a tutto ciò che ribadiva vecchie idee e che si basava sulla tradizione accademica, che entrambi avevano conosciuto da giovani. La loro (nuova) strada la fecero concentrandosi su ciò che era universale e senza tempo», aggiunge Fox Weber. Lasciata la Germania con la chiusura del Bauhaus nel 1933, gli Albers si trasferirono negli Stati Uniti, in North Carolina, luogo di cui ignoravano perfino la collocazione sul mappamondo, tanto da pensare, all’inizio, che si trovasse nelle Filippine. Quando scoprirono che invece non era troppo lontano dal Messico, dove l’arte che adoravano era stata prodotta, furono entusiasti. Josef, all’epoca, non parlava una parola d’inglese.

    L’impatto con la realtà americana li cambiò. Anni ricominciò a tessere, ma i suoi lavori riflettevano l’informalità che la circondava, così come le tele di Josef, che adesso usava i pigmenti con una libertà che evocava la dolcezza del paesaggio rurale del North Carolina. Cominciarono a viaggiare. «Furono profondamente influenzati dall’informalità americana, dall’ambiente naturale e dalla cultura del Messico e di altri luoghi dell’America Latina, che scoprirono nel corso dei loro lunghi viaggi», racconta Fox Weber. In North Carolina trascorsero 16 anni, fino al giorno in cui, all’inizio del 1949, capirono che era arrivato il momento per Josef di trovare un nuovo lavoro. Un anno a New York e poi alla Yale University di New Haven, dove Josef avrebbe diretto il dipartimento di Design fino alla morte, nel 1976.

    Josef Albers, serie di tavoli impilabili, 1927 circa.

    «Si può definire il terzo periodo della loro vita», spiega Fox Weber. «In Connecticut, dal 1950, gli Albers risposero direttamente all’architettura del New England, al mutare delle stagioni e alla cultura del luogo, continuando a viaggiare in Messico per farsi nutrire dalla sua arte, senza mai vacillare nei loro valori fondamentali, che erano senza tempo». Alla parete della camera da letto nella loro casa l’unica che abbiano mai posseduto – è appeso il dipinto di Josef Equal and Unequal: due forme quadrate che «sebbene separate sono attratte l’una verso l’altra magneticamente; una forza fantastica colma il divario tra di loro, unendole mentre ciascuna esercita la propria indipendenza. Come il titolo del quadro, Anni e Josef Albers furono, proprio come volevano, uguali e ineguali». Sempre fedeli a loro stessi.

    Questo articolo, con le fotografie d’archivio e le immagini pubblicate nel libro di Phaidon, è a pagina 132 di AD di gennaio.

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