La paura di non farcela, di morire soffocato, senza più aria nei polmoni. Come i pesci che boccheggiano quando sono fuori dall’acqua. “Vedo il terrore stampato sul viso della gente”, ci conferma su Whatsapp Francesco Di Donna, italiano, capo missione di Medecins sans Frontières nello Stato di Amazônas, Brasile. “Avverto intorno a me l’angoscia della gente, il senso di impotenza, la paura non solo di morire ma che questa nuova ondata di Covid sia peggio dalla prima. Qui abbiamo già visto quattro mesi fa cosa era accaduto. Sono immagini che non svaniscono, restano impresse come un monito. Per questo tutti temono che possa accadere di nuovo. Un incubo che ritorna”.
Manaus, la capitale amazzonica con un milione e mezzo di abitanti, è satura. Non accoglie più gente che viene dalle foreste che l’avvolgono. Gli ospedali sono pieni, al collasso. Non ci sono posti letto disponibili: nei reparti clinici (111,45 per cento delle capacità) e in quelli di terapia intensiva (103,69). Sono dati del Centro di Salute dello Stato e confermati dal ministero della Salute. Ricoverare altri pazienti contagiati dal virus non avrebbe senso. Anche piazzandoli nelle corsie, nelle sale di attesa, sui piazzali di ingresso o lungo i marciapiedi. Non è un problema di spazio. Manca l’ossigeno. Morirebbero comunque. “Non posso confermarlo”, aggiunge Di Donna, “ma so che molti medici si trovano davanti a scelte drammatiche nella quali si decide chi curare e chi no. In base all’età, alle malattie pregresse, allo stato di salute del paziente”. Si muore e si vive.
L’allarme è scattato due settimane fa, in coincidenza con il Natale. La gente ha cominciato a riversarsi negli ospedali, 400 ricoveri al giorno, e i reparti si sono subito intasati. I medici sono stati presi alla sprovvista ma c’erano già stati chiari segnali di un aumento dei contagi. Si pensava a un picco stagionale, alla gente che tornava a casa dopo le vacanze estive, al flusso di viaggiatori che diventa un volano della pandemia. Poi hanno chiamato dal Giappone: due cittadini di ritorno dall’Amazzonia si erano presi il Covid. Lo avevano già avuto, ma questo era diverso. Una variante del ceppo-madre, come quelle inglese e sudafricana. Anzi, due, hanno precisato più tardi, dopo accurate indagini. Varianti sconosciute, più aggressive, forse più letali. Veniva dall’interno, dalla foresta ed è stata importata a Manaus.
L’ossigeno è finito in una settimana. Tutti avevano in casa una bombola, un cimelio che avevano conservato durante la battaglia della prima ondata. Ma erano vuote, bisognava riempirle. E’ scattata la corsa verso i centri di produzione che non hanno retto il ritmo e sono andati in tilt. Fuori dagli ospedali si sono formate lunghe file per caricare le bombole e portarle di corsa a casa dove i parenti ammalati stavano in agonia. Tutti abbiamo visto sui siti e sui social le scene strazianti, di disperazione perché il fattore tempo, per chi è aggredito dal virus, è vitale.
“Per noi”, spiega Di Donna, “la situazione è peggiore. La nostra missione si è concentrata su due villaggi dell’interno: a Tefé e São Gabriel da Cachoeira. Sono centri rurali, hanno posti medici ma nessun ospedale attrezzato. Siamo arrivati con una decina di operatori, tra medici internisti e infermieri. Professionisti esperti nel trattamento del Covid che si sono affiancati a altri colleghi brasiliani. Con l’aiuto dei militari che coordinano gli interventi siamo riusciti a portare dell’ossigeno. Ma non è sufficiente. Mancano personale e altre bombole. I collegamenti con Manaus sono difficili e adesso interrotti. Si viaggia solo in aereo o sulle lance veloci. Ma sono stati requisiti. Servono a portare gli ammalati in altre città e a rifornire di ossigeno i centri che sono allo stremo. Gli ospedali sono intasati e si vuole evitare che il virus arrivi anche dall’esterno. Dobbiamo curare le persone contagiate sul posto. Ma dobbiamo soprattutto continuare a girare per i villaggi per spiegare bene come difendersi”.
Il dramma di Manaus è diventato il dramma del Brasile. Cresce il malumore che poi esplode in proteste appuntate soprattutto su Jair Bolsonaro. Mestoli battuti sulle pentole fuori dalle finestre, urla e insulti. Lo accusano di genocidio. Due giorni fa, davanti alle scene strazianti in Amazzonia, aveva detto: “Mi dispiace molto per quella gente. Sono qui, quando a quest’ora dovrei stare su una spiaggia a bermi una bella birra ghiacciata”. Ha chiesto al suo vice, Hamilton Mourão, di attivarsi con i militari che da mesi gestiscono direttamente l’emergenza Covid. Le competenze sulla sanità sono divise tra governo federale e governo centrale. Ma il capo del SUS, il sistema sanitario nazionale, è il ministro della Sanità. Anche lui è un militare, il generale Eduardo Pazuello. Human Rights Watch chiede la sua rimozione e accusa il presidente di “sabotare” gli sforzi contro la pandemia.
Negli ambienti politici di Brasilia si torna a parlare di impeachment. Si tratta solo di voci insofferenti. La vera emergenza resta l’ossigeno. Ne servono 76 mila metri cubi. Un ponte aereo, che ha trasferito anche dei pazienti in altre città assieme ai neonati prematuri, ne ha trasportati a Manaus 8.663. Rappresentano il 18 per cento del fabbisogno. Perfino il Venezuela si è offerto di spedirne 100 mila litri. Il ministro degli Esteri Jorge Arreaza annuncia di averli già imbarcati sui camion. Dovrebbero attraversare la frontiera di Roraima in queste ore. Ma il Brasile dice di non saperne nulla.