Bye bye London, con Brexit e Covid è fuga dalla capitale britannica

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    LONDRA – Un milione e trecentomila stranieri hanno lasciato il Regno Unito nell’ultimo anno. In settecentomila se ne sono andati via soltanto da Londra: un calo dell’8 per cento per gli abitanti della capitale nel 2020. A livello nazionale, si tratta del maggiore declino della popolazione britannica dalla Seconda guerra mondiale in poi. Gli esperti ne attribuiscono la causa a due fenomeni manifestatisi uno dopo l’altro: la Brexit e il Covid. Un “uno-due”, lo si potrebbe chiamare in termini pugilistici, che ha mandato temporaneamente il Paese al tappeto.

    Naturalmente la Gran Bretagna ha il potenziale per rialzarsi in piedi. Ma come appaiono lontani, in questo momento, i tempi in cui era soprannominata “Cool Britannia”, negli anni del blairismo precedenti alla controversa decisione di entrare in guerra accanto all’America di George W. Bush in Iraq, l’evento che ne ha cambiato la storia recente: quando aveva la crescita economica più forte d’Europa, attirava immigrati da ogni angolo del continente e dell’Europa unita faceva ancora parte a pieno titolo, sia pure con le divergenze (fuori dall’eurozona e fuori da Schengen) che sarebbero dovute bastare a soddisfare la sua ambizione a rimanere distinta e diversa.

    È un rapporto dell’Economic Statistics Centre of Excellence, centro studi finanziato dal governo di Boris Johnson, pubblicato questa settimana dal Financial Times, a diffondere le dimensioni della “fuga da Londra”. In parte, è la cronaca di un regresso annunciato: tutte le stime prevedevano che un consistente numero di residenti stranieri avrebbero abbandonato le isole britanniche, sospinti dall’incertezza provocata dalla Brexit, cioè dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, dalle difficoltà economiche che ne sarebbero risultate, già evidenti nel rallentamento delle esportazioni, scese di un terzo per l’aumento della burocrazia anche laddove non sono entrati in vigore dazi doganali, e poi dalla recessione provocata dalla seconda, parallela e ancora più dura botta del coronavirus.

    Se a fare le valige sono soprattutto i residenti dei 27 Paesi della Ue, in verità le statistiche segnalano che ora arrivano stranieri di altre regioni del mondo chiamati in parte a sostituirli, perché di manodopera la Gran Bretagna ha comunque bisogno: del resto all’epoca del referendum sulla Brexit, nel 2016, aveva la disoccupazione più bassa d’Europa, sotto il 4 per cento, una quota considerata quasi endemica, come dire che non trovava lavoro soltanto chi in effetti non lo cercava, prova di più di quanto la campagna per divorziare dalla Ue fosse basata su ragioni e sentimenti staccati dalla realtà. Ora, con la pandemia, lo spettro della disoccupazione di massa si aggira anche qui.

    L’esodo della “legione straniera” infatti è in primo luogo derivato dalla crisi del settore dell’ospitalità, il più colpito dal Covid e dai lockdown: caffè, ristoranti e alberghi, da queste parti, contavano in larga misura su lavoratori esteri, che ora, rimasti senza occupazione e salario, non hanno spesso altra scelta se non quella di rientrare in patria. Ma il fenomeno ha anche altri aspetti: i tagli nella City, lo smart working che permette il lavoro a distanza (dunque perché non da Barcellona o Nizza) e in generale l’idea che, senza i suoi musei, teatri e ristoranti, Londra in questo momento è solo una città più cara, e più a rischio di contagio, di tanti altri posti. Proprio dalla City potrebbe partire la rinascita, puntando su industrie creative, start-up digitali e green economy, non più soltanto finanza.

    Prima o poi, la capitale tornerà a brillare e a sentirsi “cool”, alla moda e di tendenza. Quanto alla Gran Bretagna nel suo complesso, l’era d.C, (dopo Coronavirus) si profila carica di incognite. Ci sarà la secessione della Scozia, che con la scusa di tornare nella Ue spera di realizzare il sogno dell’indipendenza? Citando motivazioni analoghe si separerà anche l’Irlanda del Nord, per riunificarsi con la repubblica d’Irlanda? E soprattutto quale posto adotterà l’Inghilterra nel mondo globale? La domanda che pone fra gli altri Philip Stephens, columnist del Financial Times, in un nuovo libro sulla lunga crisi d’identità seguita al crollo dell’Impero britannico, iniziata con l’imbarazzante ritirata da Suez nel 1956 e culminata nel 2016 con la Brexit. 

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